Dal primo luglio 2021 riprendono le azioni forzose di esecuzione delle sentenze di sfratto emesse in data precedente al 29 febbraio 2020 per morosità, comprese quelle riguardanti gli espropri immobiliari per mancato pagamento di ratei di mutuo. A seguire, dal primo ottobre 2021, ci saranno le esecuzioni di sfratto per le sentenze emesse dal primo marzo al 30 settembre 2020; infine, dal 31 dicembre 2021, si dovrebbe procedere a quelle relative alle sentenze emesse dal primo ottobre 2020 al 30 giugno 2021. Questa la graduazione prevista dal decreto Sostegni 1. Dietro i numeri, ci sono interi nuclei famigliari; e dal primo luglio circa 80.000 richieste di assistenza da parte della forza pubblica, presentate dai proprietari, si riverseranno sui commissariati. Si profila una situazione terrificante, soprattutto perché negli scorsi sedici mesi – da parte del governo, ma anche da Regioni e Comuni – non è stato messo in atto alcuno strumento per consentire un’adeguata gestione degli sfratti, a partire dalla garanzia di passaggio da casa a casa.
Anche se il governo e il parlamento hanno stanziato, nel corso del 2020, risorse per i contributi a sostegno di affitto e morosità incolpevole (pari a 530 milioni di euro complessivi), queste non sono state utilizzate, o magari sono arrivati pochissimi contributi una tantum. Le risorse stanziate nell’ultima legge di bilancio per il 2021 – 210 milioni per il fondo contributo affitto e 50 milioni per il fondo morosità incolpevole – a oggi, addirittura, non sono state neanche ripartite tra le Regioni. E gravissima è stata la scelta operata dal governo durante il 2020, che, a fronte di centinaia di miliardi di euro destinati a giusti sostegni, non ha previsto alcun intervento di ristoro per i proprietari con immobili soggetti a proroga degli sfratti, neppure prevedendo una esenzione dall’Imu.
In tale contesto, inevitabilmente, sono assai peggiorati i rapporti tra inquilini e proprietari e le rispettive rappresentanze. Con alcune associazioni della proprietà che si sono spinte a chiedere, per tutto il 2020 e ancora oggi, la ripresa generalizzata degli sfratti anche nel pieno della pandemia, affermando una sorta di priorità della proprietà privata sul diritto alla salute, pur in presenza di una emergenza sanitaria.
Detto questo, la questione è politica. Anche in piena pandemia si sarebbe potuta evitare perfino la proroga degli sfratti se l’Italia si fosse dotata di un numero adeguato di case popolari. Siamo il fanalino di coda dell’Unione europea: nonostante i dati drammatici relativi alla povertà assoluta, continuiamo imperterriti a propagandare il sostegno all’acquisto di case, accollando ai nostri giovani sotto i 36 anni mutui incompatibili con i redditi medi derivanti da un lavoro spesso precario, il tutto a vantaggio di banche e costruttori.
A fronte di una massa ingente di risorse provenienti dal Recovery Fund, quasi nulla è stato destinato all’aumento della disponibilità di alloggi di edilizia residenziale pubblica a canone sociale, senza consumo di suolo. Certo, sono previste risorse per l’efficientamento energetico e per il recupero e la riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica; ma queste iniziative non rispondono alle necessità derivanti dalla ripresa degli sfratti e alle esigenze delle 650mila famiglie, in Italia, oggi nelle graduatorie per l’accesso a un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Né si può credere che, con due spiccioli di contributi, si possa affrontare lo tsunami sociale che sta per investire i nostri Comuni.
Eppure la possibilità di avere subito disponibili migliaia di alloggi inutilizzati, per garantire i passaggi da casa a casa, ci sarebbe. Basterebbe, per esempio, che enti come Inps, Ferrovie dello Stato, ministero della Difesa, mettessero a disposizione dei Comuni, anche solo temporaneamente, le loro unità immobiliari inutilizzate (sono 3.500 quelle dell’Inps, 5.300 quelle della Difesa). Questo nell’immediato, avviando, contestualmente, una mappatura nazionale sul patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato, al fine di una sua riconversione a case popolari senza consumo di suolo. Significherebbe dare il via a una grande opera pubblica che sarebbe, tra l’altro, un eccellente volano occupazionale e una risposta concreta alle famiglie in precarietà abitativa, con l’obiettivo di dotare l’Italia di una infrastruttura sociale strategica quale quella costituita dalle case popolari.
Il punto sta proprio qui: la politica non riesce a vedere le case popolari come una infrastruttura essenziale. Nel frattempo, nei Comuni, migliaia di famiglie stanno per finire sulla strada, e la faccia dello Stato che vedranno sarà quella rappresentata dalle forze dell’ordine. Che nessuno dica di non sapere.
* Ex-segretario nazionale Unione Inquilini