I risultati del secondo turno delle elezioni regionali francesi hanno sostanzialmente confermato le indicazioni del primo. Si è trattato, come previsto anche in un precedente articolo, di un voto “legittimista”. I presidenti delle regioni uscenti sono stati quasi tutti rieletti: sette alla destra gollista, cinque al Partito socialista e uno ai nazionalisti corsi. La mappa elettorale delle regioni rimane identica a quella della consultazione precedente del 2015.
La politica di Macron è stata sconfessata. Il partito del presidente, La République en marche, non ha vinto in nessuna regione, ottenendo complessivamente il 7% dei voti. I presidenti uscenti hanno beneficiato di un bonus per la loro gestione reale o supposta della crisi Covid. Ma al governo questo merito non è stato riconosciuto.
Il Rassemblement national, per parte sua, non è riuscito a mobilitare i propri elettori e ha fallito anche nelle regioni in cui avrebbe potuto vincere, come in Provenza-Alpi-Costa azzurra, dove il candidato Thierry Mariani ha incassato il 42,7% dei voti contro il 57,3% ottenuto dal candidato di Les Républicains e presidente uscente, Renaud Muselier, sostenuto dal cosiddetto Fronte repubblicano, costituito grazie alla desistenza di tutti gli altri partiti. Il Rassemblement national è passato dal 28% del 2015 al 20,5% attuale. Per rendere il suo partito “presidenziabile” Marine Le Pen si è spostata verso il centro scontentando la destra antisistema e più sovranista. Un po’ come sta accadendo con Salvini nel nostro Paese.
Per il deputato della France insoumise, Éric Coquerel, eletto nel popolare collegio della Seine-Saint-Denis, non è per niente scontato il duello anticipato da molti osservatori per le elezioni presidenziali del 2022: “Uno dei grandi insegnamenti di queste elezioni è la grande distanza che c’è tra i sondaggi e la realtà. Stando ai sondaggi il Rassemblement national avrebbe vinto in tre o quattro regioni, e invece non ha vinto neanche in una”. Forse (ma occorre essere prudenti stante la scarsa partecipazione) i francesi non vogliono più il duello Macron-Le Pen.
E infatti l’ultimo sondaggio Ipsos del 28 giugno scorso, in un confronto al primo turno delle presidenziali, dà Macron al 24-27%, Le Pen al 24-26%, Bertrand (il gollista meglio piazzato, presidente della Regione Hauts-de-France) al 18-20%, mentre la sinistra e gli ecologisti potrebbero arrivare a superare il 27% e a qualificarsi per il secondo turno – ma, ahimè, procedono per il momento in ordine sparso (Jadot dei verdi al 10%, Hidalgo del Partito socialista all’8-9%, Mélenchon di France insoumise al 7%, Roussel del Partito comunista al 2,5%). Sondaggi precedenti davano invece Mélenchon in testa (10-11%) e la Hidalgo e Jadot al 6-7%. In ogni caso, non sarà facile sommare i loro voti nelle urne. Alle regionali, comunque, le alleanze a sinistra hanno tenuto, ottenendo il 34% dei voti espressi. Gli osservatori che hanno scrutato i dati elettorali per ricavare qualche linea di tendenza in previsione delle presidenziali del 2022, fra appena dieci mesi, sostengono che nessuno schieramento sia esente da problemi.
Lo sciopero del voto e la crisi della Quinta Repubblica
Tutti devono innanzitutto fare i conti con la crescita dell’astensionismo. Anche i presidenti regionali eletti hanno una legittimità reale ridotta dalla scarsità dei votanti. Non c’è stata l’auspicata crescita della partecipazione tra il primo e il secondo turno, salita solo dal 33,3 al 34,3%. Nel 2015, alle precedenti elezioni regionali, al primo turno aveva votato il 42% degli aventi diritti e al secondo il 50%. L’83% dei giovani tra i 18 e i 25 anni ha disertato le urne. Anche se molti giovani si impegnano per il clima, nelle associazioni, contro il razzismo, si deve constatare che si impegnano per le cause in cui credono, e non per elezioni lontane dai loro interessi.
Bisogna interrogarsi sulla caduta costante e progressiva della partecipazione. Non ci si può limitare ai commenti di routine. Sono i giovani e le classi lavoratrici che, più di altri, rifiutano di partecipare a quella che considerano una commedia. La débacle democratica sarebbe completa se anche alle presidenziali la maggioranza dei francesi decidesse di non andare a votare. I meccanismi sociali, istituzionali e mediatici che caratterizzano la post-democrazia, conducono le democrazie occidentali in un cul-de-sac. In Francia, in particolare, si assiste al fallimento della Quinta Repubblica. Molti commentatori hanno ricordato le richieste di rinnovamento della democrazia emerse nel corso delle mobilitazioni dei gilets jaunes, che hanno auspicato la fine della monarchia presidenziale, il ritorno al proporzionale e a un vero regime parlamentare, con l’introduzione dei referendum d’iniziativa cittadina. In altri termini, il ripristino della sovranità popolare.
I media, e quasi tutti i leader politici, hanno focalizzato il dibattito su temi identitari, religiosi (il comunitarismo islamico), migratori, lontani dalla realtà quotidiana dei francesi e dalle loro priorità, piuttosto che su questioni come la sanità, il lavoro, l’ambiente, la scuola. E questo non è stato senza conseguenze per la presenza ai seggi.
Giochi aperti per le presidenziali
Nella destra moderata – Les Républicains, La République en marche – si è aperta una contesa per stabilire chi andrà al secondo turno delle presidenziali. I Républicains sperano di ripetere l’exploit delle regionali, limitando il consenso dell’estrema destra e di Macron – magari con un candidato più credibile di Fillon nel 2017. È infatti già partita la corsa per la candidatura alle presidenziali tra Bertrand, Wauquiez e Pécresse, senza dimenticare l’uomo delle trattative Brexit tra l’Unione europea e la Gran Bretagna, Barnier.
La sinistra non è riuscita a innescare, tra il primo e il secondo turno, una dinamica nuova, salvo che alla Réunion, isola dell’Oceano indiano, e nella Guyana, in Sud America: due territori d’oltremare in cui la sinistra ha spodestato la destra. L’unica e troppo corta settimana tra i due turni non ha consentito di mobilitare gli astensionisti di sinistra. Ma nel complesso la gauche ha retto e mantenuto le posizioni. L’esempio più chiaro viene dalla regione di Parigi, dove la percentuale ottenuta dalla lista unitaria – verdi, socialisti e “insoumis” – ha ottenuto praticamente gli stessi voti del primo turno (circa il 34%). Anche nella Loira gli ecologisti e la sinistra uniti hanno ottenuto il 34,6%; e ancora, in Borgogna il 42,2%, negli Hauts-de-France (nel Nord) il 22%, nel Grand Est il 21%, nel Centro il 39,15%, in Alvernia il 33,6%, in Occitania il 57,8%, nella Nuova Aquitania il 39,5%, e in Bretagna il 29,8%. Tuttavia le elezioni regionali non hanno chiarito a chi spetterebbe la leadership della sinistra.
Gli ecologisti speravano di vincere nelle regioni della Loira e in Bretagna; ma devono accontentarsi del fatto che, per la prima volta, i candidati dei verdi arrivano tutti davanti agli altri candidati di sinistra, dove il Partito socialista non aveva il presidente uscente. Al primo turno Europe Ecologie è l’unica forza che ha incrementato, e anche raddoppiato, il risultato a livello nazionale rispetto al 2015.
La France insoumise non ha leader riconosciuti al di fuori di Jean-Luc Mélenchon (salvo forse Clementine Auteuil che ha drenato molti consensi nella regione di Parigi, soprattutto nei quartieri popolari, come nella città di Aubervilliers), cosicché ha patito il suo scarso radicamento territoriale. Secondo La France insoumise, al primo turno delle presidenziali non sarà possibile riunire tutte le forze di sinistra, anche perché il Partito socialista si è convinto di essere rinato con queste elezioni e tenderà quindi a porsi come partito egemonico e settario. Il segretario dei socialisti, Olivier Faure, ha tenuto a precisare che “c’è una forza trainante a sinistra ed è quella socialista”. La France insoumise cercherà allora di coalizzarsi con i verdi e con le altre forze di sinistra. Come si vede, per la sinistra francese l’unità è una strada tutta in salita