La parola “guerra” esercita una perversa fascinazione sulle menti: di recente la si è sentita usare, in modo del tutto inappropriato, per il contenimento di un’epidemia. E per la campagna vaccinale – ben altra cosa da una campagna militare – è stato non troppo opportunamente mobilitato un generale. Ma non è di questo che ci occupiamo qui, quanto piuttosto del fatto che la “guerra contro il terrorismo”, in cui pure il termine sembrerebbe avere una qualche plausibilità, si è risolta in un fallimento che ha contribuito ad alimentare la spinta jihadista dell’islamismo radicale.
Non soltanto l’islam in sé, ma neppure la sua componente militante può essere semplicemente ridotta alla movenza jihadista. Si è già accennato, nell’articolo precedente, alla svolta costituita, nel 1979, dalla rivoluzione iraniana, con la sua vincente connotazione politico-religiosa. Siamo qui in ambito sciita, all’interno di quella corrente musulmana in cui più accentuato è l’aspetto messianico. Sarebbe sbagliato definire “jihadista” – nel senso in cui se ne parla oggi, come di un sinonimo di “terrorista” – l’ayatollah Khomeyni, nemico giurato della forma di vita occidentale moderna, senza dubbio, ma soprattutto guida spirituale e politica di una rivoluzione che, nel bene e nel male, ha fatto epoca. Non va dimenticato, inoltre, che il 1979 è l’anno in cui i brontosauri sovietici si infilarono nel loro Vietnam con l’invasione dell’Afghanistan. Una scelta che contribuì non poco alla successiva dissoluzione del “socialismo reale”, e – cosa ben peggiore – denotò la perdita secca di egemonia “messianica”, cioè di una qualsiasi tensione utopica e perfino distopica, il cui testimone, con movimento inverso rispetto a quello da cui nacque il socialismo, fu riconsegnato una volta per tutte alla religione: in particolare (fa un po’ sorridere ricordarlo, tanto la faccenda ha un sapore ironico) alle varie bande armate sunnite (in quella fase sostenute dagli americani) che, opponendosi vittoriosamente all’occupazione dell’Afghanistan, cominciarono a sentirsi invincibili. Basti pensare che il saudita Bin Laden, con la sua vocazione jihadista rivolta poi contro gli stessi Stati Uniti, proprio là si fece le ossa.
È insomma all’interno della strana trasmigrazione tardonovecentesca dello spirito rivoluzionario dal marxismo – ancora un’ideologia del tutto occidentale e moderna – verso il ritorno a un’identità culturale neotradizionalista, cioè verso l’idea di una rivoluzione come ripresa delle origini, che va inquadrato il risorgere dell’islam in generale, e di quello radicale in particolare.
Se le cose stanno così, non c’è “guerra” che tenga. A collocarsi su questo piano, si fa il gioco di coloro che si sostiene di voler contrastare. È provato che l’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici – così come in seguito la prima guerra del Golfo, quella voluta da Bush padre contro l’Iraq per rispondere all’occupazione del Kuwait da parte di Saddam Hussein – abbiano contribuito non poco al crescere delle forze jihadiste. Se fate la guerra, avrete la guerra. E questa avrà una portata mondiale, sia pure a bassa intensità, in quanto mondiale è la presenza musulmana, in nessun modo riducibile all’area mediorientale.
Come rispondere allora al fenomeno jihadista? Prendiamo la Francia, un paese di cui si parla poco in questo contesto, e che invece riveste un’importanza centrale – perfino maggiore di quanto ne abbiano gli Stati Uniti o la Gran Bretagna. Nel 2005, nelle banlieues delle città francesi, si assisté a una rivolta nelle ore notturne, durata diverse settimane, con l’incendio di automobili e veloci scontri con la polizia. Sarkozy, all’epoca ministro dell’Interno, proclamò che bisognava trattare quelle canaglie con il bidone aspiratutto. Il Partito socialista, nonostante avesse ancora un grande peso elettorale, si disinteressò alla questione, evidentemente timoroso di disturbare i benpensanti. Ciò che andava fatto, e non si fece, sarebbe stato sviluppare delle politiche sociali nei confronti dei giovani delle periferie – per la maggior parte figli dell’immigrazione di seconda e terza generazione – per evitare che, con tutti i loro problemi di disoccupazione e disadattamento, si orientassero verso una scelta politico-religiosa di tipo jihadista. In quella “guerra di Spagna” postcoloniale, che per un certo islam è stata la Siria, una non piccola parte di combattenti stranieri, a fianco del cosiddetto Stato islamico, è stata di provenienza francese – per non parlare degli attentatori, in gruppo o sparsi, che hanno agito negli ultimi anni direttamente sul suolo metropolitano.
Del resto la Francia nel 2013, prima dell’ondata di attentati sul suo territorio, è intervenuta militarmente nel Mali: ed è ancora lì, senza sapere più che cosa fare tra un colpo di Stato e l’altro delle forze militari locali. La decisione fu presa da Hollande, adoperando la solita retorica della “guerra al terrorismo”, dopo che la situazione in quel paese e, più in generale, nella regione del Sahel, stava diventando complicatissima per il combinarsi di una tradizionale opposizione tuareg, a vocazione indipendentista, con l’attività dei gruppi jihadisti. Tutti ricorderanno i rapimenti di cittadini francesi, sia cooperanti sia turisti, in quella vasta zona dell’Africa. Ora, non si può mettere in discussione la necessità, in casi estremi, di intervenire con le armi (per quanto questa opzione sia sempre da considerare un’ultima ratio, se si pensa al pericolo cui si sottopone la vita di eventuali ostaggi); ciò che proprio non va è la logica militare dell’occupazione di un territorio, in un batti e ribatti che dura anni e anni, all’interno di una logica bellica “infinita”.
Ma c’è quella cosa che a Parigi si chiama Françafrique – cioè un misto di politica neocoloniale bella e buona, che fa della Francia la “protettrice” di quegli Stati che furono suoi vecchi possedimenti, e di nuovi interessi economici non sempre trasparenti –, in base alla quale non si devono lasciare a se stessi i poveri africani. Infognarsi in una “guerra al terrorismo” priva di sbocchi possibili – se non, alla fine, una ritirata non si sa neppure quanto onorevole – diventa così una specie di scelta obbligata.
Ciò che manca davvero è la politica, con il suo importante derivato che è la diplomazia. L’Occidente è portato a ritenere che la guerra sia ancora la continuazione della politica con altri mezzi: un detto, questo, che poteva reggere nell’età di quelle singolari partite a scacchi sui campi di battaglia che erano i conflitti a base dinastica. Uno schema che già Napoleone (che pure veniva da quella scuola) aveva messo in crisi con la sua trasformazione della guerra mediante la coscrizione popolare di massa.
La guerra non è più da tempo la politica con altri mezzi. Essa è piuttosto l’impotenza della politica gridata con il frastuono delle armi. Alla “guerra al terrorismo”, infatti, non può seguire nessuna pace. Il jihadismo è solo una controfigura della perdita di nitore della proposta e della (presunta) missione dell’Occidente. Dopo la fine ingloriosa del processo di decolonizzazione, dopo la ormai conclamata incapacità di mediazione nella questione israelo-palestinese, dopo il tendenziale esaurimento del suo primato economico a favore di una Cina sempre più rampante, un Occidente privo di utopia è costretto a condurre una “guerra”, pur con strumenti tecnologicamente avanzatissimi, che è soltanto cercare di mettere una toppa una volta qua e un’altra là.