
Non sono più fatti suoi, e non si tratta più di capricci speculativi, con cui far guadagnare qualche miliarduccio a qualche amico suo. Le furie privatizzatrici di Elon Musk, contemplate con compiacimento dal presidente formale, Donald Trump, stanno colpendo al cuore il sistema militare e di sicurezza degli Stati Uniti, scoprendo l’intero fronte occidentale, al momento ancora accucciato sotto l’ala protettiva americana. In poche settimane, nell’indifferenza generale, la leva di boy scout liberisti, scatenati dal padrone della Tesla, ha stretto d’assedio i sistemi strategici del Pentagono, spingendo ai margini i responsabili di funzioni delicatissime come l’aggiornamento tecnologico, oppure le stesse capacità di gestione degli arsenali nucleari.
Certo, dopo ottant’anni di lotta all’imperialismo atlantico, e di contrasto a ogni espansione della macchina militare a stelle e strisce, trovarsi ora alle prese con un nemico ancora più estremo e minaccioso, quale quello che si è impossessato della Casa Bianca, suona paradossale. Ma la privatizzazione dei segmenti portanti del complesso militare americano sta avvenendo nel segno di un trasferimento di sovranità e potere dal pubblico alla sfera della più assoluta discrezionalità di oligopoli senza legge né limiti.
Qualche giorno fa l’intero ufficio che pianifica la politica di digitalizzazione degli apparati d’arma statunitensi si è sciolto, con la fuga di gran parte dei suoi membri sotto l’incalzare del cosiddetto Doge, il nucleo per la semplificazione della macchina burocratica che Trump ha affidato a Musk. Un segnale che conferma un fenomeno in atto da tempo, ma che in questi mesi della nuova presidenza è diventata una opzione accelerata: il trasferimento a imprese private, sotto forma di veri e propri appalti, di funzioni essenziali non solo nell’ambito dei servizi o della logistica, ma negli stessi sistemi d’arma o nei reparti di pronto intervento, e persino nei grandi sistemi di supporto e guida di mezzi sofisticatissimi, come le portaerei o i reparti missilistici.
Non si tratta di una smobilitazione, o di un ridimensionamento, ma di una vera privatizzazione che importa nella rete pubblica una logica di pura efficienza operativa, che orienta non tanto lo snellimento della macchina ma la sua automazione. In sostanza, mentre si riduce ogni funzione umana, affidata a truppe o centri di comando, trasferendo le attività primarie di combattimento ad apparati automatizzati, si sostituisce una cultura di gestione di questi processi, sovrapponendo ai tradizionali centri di stato maggiore ristrette unità operative di imprese private che hanno – come istinto – il profitto e come mezzo l’efficienza. Due concetti che, in ambito militare, sono i più incontrollabili fattori di instabilità politica.
Questa strategia di alleggerimento dei reparti militari deve oggi essere seriamente seguita e contrastata, proprio a partire da un’esigenza di sicurezza. Nel suo saggio Terra e mare (Adelphi editore), che ancora oggi è una pietra miliare delle strategie di sovranità statale, Carl Schmitt ricorda che l’irruzione sulla scena di una potenza di mare, quale l’impero inglese, stravolse le regole estendendo il conflitto militare a ogni ambito civile senza limiti o regole. Inoltre, la Gran Bretagna fu il primo grande aggregato statale a privatizzare la guerra e i processi di conquista, prima con i corsari, nel Diciassettesimo secolo, e poi con la Compagnia delle Indie, che arrivò a estendere i domini della corona sotto la propria giurisdizione privata. Oggi siamo a un passaggio simile: guerra tecnologicamente pervasiva, che identifica e scova i suoi obiettivi ovunque, come il massacro a Gaza dimostra, e affidamento a centri privati della governance diretta dell’imperialismo.
L’Europa, a dispetto dei sorrisi che Meloni ha scambiato con Trump, deve ribaltare questa scena, anche a costo di diventare un contendente nella confrontazione globale. Rimettere al centro una responsabilità pubblica della forza, a partire da una politica comune dell’innovazione tecnologica deve essere quella strategia che possa supportare la piena indipendenza e autonomia da ogni retaggio imperialistico, comunque camuffato.
L’alternativa sarebbe una pericolosissima scelta di disimpegno che lasci l’Occidente nelle mani di un gruppo di speculatori senza controlli, i quali si troveranno rapidamente dinanzi al dilemma se svendere ogni identità della democrazia occidentale alle pressioni di potenze concorrenti, come Cina o Russia, oppure trovarsi automaticamente nei pressi di un conflitto globale. Questa automobile lanciata a folle velocità si controlla guidandola, non scendendo alla prima curva.