
Gli antichi dicevano che i nomi sono conseguenza delle cose; esistono però anche nomi che individuano cose che a malapena esistono. Questo il caso dell’imprendibile modello Milano, di cui si è parlato spesso, senza però mai chiarire fino in fondo in cosa consistesse realmente, quali ne fossero gli ingredienti, e meno che mai indicandone le motivazioni profonde. Oggi, alla luce dello scandalo delle Scia e del venire allo scoperto della vergogna dei “facilitatori”, è di moda parlarne male liquidando quanto avvenuto negli ultimi anni, così come prima era di moda in politica, anche in ambito riformista, tesserne lodi sperticate senza riflettere troppo. Ma esisteva questo modello? E si poteva veramente pensare che fosse un “modello”, nel senso di un esempio più o meno paradigmatico che altre città avrebbero potuto seguire? Triste dovere ribadire che, se di modello si è trattato, la macchina per fare quattrini che Milano ha escogitato non è un sistema virtuoso di sviluppo, tutt’al più un insieme di strumenti concepiti per spremere sangue dalle rape, un modello se non addirittura di “sottosviluppo”, quantomeno di “sviluppo anomalo”, in ultima analisi di autoconsumo.
Riflettiamo dunque brevemente sulla composizione di questo sistema, che si è sostenuto principalmente con eventi e immobiliare. Un immobiliare tra l’altro alimentato da una congiuntura favorevole, con grandi capitali in cerca di investimenti nel mattone, e incoraggiato da una serie di “facilitazioni” (per usare un eufemismo). Nell’economia milanese degli ultimi dieci anni c’è stato pochissimo della produzione avanzata che caratterizza le città dominanti a livello mondiale. Scarsa la presenza di settori tecnologici di punta, scarsa la presenza di studenti e ricercatori stranieri, che invece caratterizza le global cities; anzi la città da tempo fatica a trattenere i propri laureati e lascia gli studenti accampati sotto le tende. Milano ha provato a trovare un suo posto nelle reti delle città globali, ma lo ha fatto proponendo una narrazione in buona parte fittizia della città, con l’obiettivo di esaltarne l’immagine, sperando così di ottenere una maggiore attrattività turistica ed economica. Al di là dei limiti del reiterarsi dei “grandi eventi”, e del relativo successo della brandizzazione, in vendita era principalmente lo spazio urbano, in particolare quello da riempire, i vuoti urbani, le zone dismesse e da “rigenerare”, e anche edifici di pregio che potevano richiamare i grandi investitori stranieri.
Come ha ben sottolineato Lucia Tozzi (vedi qui), e come abbiamo denunciato per tempo su queste pagine, sono state decisive, in quello che era sostanzialmente un bluff, le relazioni tra cultura e rendita urbana, la gestione truccata della partecipazione, la promozione della “rigenerazione urbana” intesa con una tale larghezza da fare oltrepassare, e di molto, i limiti del legalmente consentito, con un’amministrazione che lungi dal pianificare un futuro, si è limitata ad assecondare quelli che erano i promotori privati di progetti urbani. Così si sono consolidati i meccanismi dell’estrazione e della “cattura” della rendita, perseguite a seguito di un’alleanza pubblico-privato, una sorta di patto non dichiarato tra amministrazione e investitori.
Ma il fallimento di questo cocktail, che è troppo chiamare modello, lo testimoniano non gli economisti urbani, non le inchieste giudiziarie, ma i giovani che se ne vanno, gli abitanti di quartieri popolari storici sempre più espulsi verso le periferie da una fame di valorizzazione che, come un effetto domino, travolge tutto il centro. Mentre la città diventa sempre più diseguale e inabitabile.
Fino a che punto questo modello avrebbe potuto essere “esportabile”? A Genova, per esempio, per anni la giunta comunale e la Regione hanno fantasticato di “modello Milano”, giungendo a inseguire il folle sogno di una “Genova quartiere di Milano”, come ebbe a dire pubblicamente il sindaco Marco Bucci (vedi qui). In realtà, la valorizzazione della rendita perseguita a Milano può funzionare solo a determinate condizioni, non è applicabile nelle città in crisi, in cui la rigenerazione urbana, anche se applicata in maniera volutamente indulgente, non può ottenere risultati significativi, dato che i costi di ristrutturazione finiscono comunque per essere superiori agli eventuali ricavi, considerata la staticità, se non la contrazione, dei prezzi sul mercato immobiliare.
Se gettiamo una rapida occhiata all’andamento nell’ultimo decennio dei valori immobiliari, che rappresentano un ottimo barometro socioeconomico e politico, la sola Firenze regge, il resto d’Italia perde terreno. Il quadro dei valori immobiliari fornito dall’Agenzia delle entrate per il decennio 2012-2022 è impressionante: Milano trionfa con un +37,7, poi, molto distanziata, Firenze +4,60. Il resto è tutto negativo: Torino -27,35, Genova -38,77, Venezia -18,59, Bologna -9,82, Roma -26,51, Napoli -10,14. Come dire: a Milano è stato realizzato una sorta di esperimento sociale, è stata una città laboratorio, ma anche un unicum non riproducibile altrove. In un Paese in crisi radicale, segnato da una rarefazione senza ritorno del manifatturiero, che in dieci anni ha perso un quarto della propria base produttiva, Milano se l’è cavata facendo un po’ di tutto, mettendosi in vendita, cercando di attrarre capitali finanziari, scommettendo sul marketing della propria immagine. Ed è riuscita a rimanere a galla, pur pagando un prezzo sociale enorme, creando una città invivibile e “dualizzata”.
Un modello – potremmo dire – nato nel deserto di idee, di politiche, di vocazioni economiche, di capacità di innovazione, e quindi, per fortuna, difficilmente proponibile altrove, a meno che non si creda (come pare voler fare chi sulle pagine del “Foglio” lo ha difeso a oltranza) che la dimensione urbana, sociale e produttiva che il capoluogo lombardo ha recentemente incarnato finirà per essere il nuovo status quo dell’intero Paese. Va invece detto, una volta per tutte: Milano è stata un cattivo esempio, e questo non soltanto per le complicità, per i processi, per la sottrazione degli oneri di urbanizzazione, e nemmeno solo per i processi espulsivi che ha messo in atto – ma perché ha indicato una via sbagliata alla ripresa, una via disperata, percorsa cinicamente, costi quel che costi, che si sta mostrando però sempre più un cul de sac.