
Non appena insediatosi alla Casa Bianca, Donald Trump, tra le tante smanie di conquista – vedi Groenlandia e Canada – o di riconquista, ha preso di mira il Canale di Panama gestito da Washington fino al 1999, quando, sotto la presidenza di Bill Clinton, venne restituito alle autorità del piccolo Paese centroamericano. Da allora, le autorità panamensi si sono trovate a occuparsi autonomamente di un collegamento diretto e di cruciale importanza tra il Pacifico e l’Atlantico.
Vale la pena ricordare come la nascita e la gestione del Canale siano avvenute all’insegna della violenza. Nel 1901, quando Panama faceva ancora parte della Colombia, gli Stati Uniti ottennero da Bogotà il compito di costruire il canale, con in cambio l’autorizzazione a gestire questa importante via d’acqua per cento anni: accordo che fu poi ritirato due anni dopo, per questioni apparentemente burocratiche da parte della Colombia. La risposta di Washington fu cruenta. Attraverso una sommossa costruita ad arte contro il governo colombiano, Panama divenne di fatto una repubblica “indipendente” sotto la tutela degli Stati Uniti, che inaugurarono ufficialmente l’apertura del Canale il 12 luglio 1920.
Nel 1977, i due presidenti degli Stati interessati, Jimmy Carter e Omar Torrijos, posero le basi per l’intesa definitiva del 1999. Ma ora Trump vuole far tornare indietro l’orologio della storia di un quarto di secolo, preoccupato dalla crescente presenza della Cina che gestisce buona parte del traffico marittimo che transita attraverso il Canale. Come riporta la testata “Today Mondo”, “secondo un accordo bilaterale (tra i due governi, ndr) alle truppe statunitensi sarà consentito di schierarsi nei pressi del Canale di Panama: un ritorno al 1999, quando gli Stati Uniti avevano un’enclave nel Paese centroamericano prima di cedere il Canale ai panamensi”.
Una marcia indietro che consentirà di svolgere esercitazioni militari e “umanitarie” nell’istmo. La ragione principale di questa scelta è appunto la presenza cinese in quel luogo così strategico, nel patio trasero (“cortile di casa”) come gli Stati Uniti hanno sempre considerato il Centro America e un po’ tutto il continente latino-americano. Trump non ha escluso un intervento militare, ma, rispetto al 1989, quando venne spodestato il discusso presidente Manuel Noriega, catturato con un intervento militare che costò la vita a cinquecento panamensi, i tempi sono cambiati – e parecchio. Aggiungiamo, per fortuna, visto che il gigante asiatico non sarà governato da una democrazia liberale, ma almeno non si fa strada a forza di golpe e guerre di ogni tipo, e sta gestendo la propria penetrazione economica, in Africa e in America latina, senza spargimenti di sangue.
In realtà, gli Stati Uniti da tempo organizzano esercitazioni militari a Panama, un’esibizione muscolare che “potrebbe – ancora secondo “Today Mondo” – rappresentare uno svantaggio politico per il presidente di destra di Panama, José Raúl Mulino, che giovedì scorso dal Perù ha confermato che gli Stati Uniti avevano chiesto di ripristinare le basi militari nel Paese e di ‘cedere territori’, richiesta da lui rifiutata”. La risposta di Mulino è stata netta: “Volete che il disordine dia fuoco al Paese? Questo canale è e rimarrà panamense”.
Da tempo gli Stati Uniti non si erano intromessi fino a questo punto nelle faccende dei vicini, modificando comunque le modalità d’intervento rispetto ai tempi dei colpi di Stato militari. Ma le pretese di Trump, oltre ad aver provocato la risposta di Mulino, hanno acceso la miccia della protesta della popolazione e di altri politici e sindacalisti, come Saúl Méndez, che ha stigmatizzato l’accordo bilaterale, definendolo “un passo indietro per la sovranità nazionale”. “Panama – informa ancora “Today Mondo” – garantisce l’accesso a tutte le nazioni. Questa via d’acqua gestisce circa il 40% del traffico container degli Stati Uniti e il 5% del commercio mondiale. Ma il presidente americano ha puntato il dito contro il ruolo della Panama Ports Company (Ppc), una sussidiaria di un gruppo di Hong Kong, che gestisce i porti situati alle due estremità del Canale. Sotto la pressione della Casa Bianca, Panama ha accusato la Ppc di non aver rispettato i propri obblighi contrattuali, e ha chiesto all’azienda di ritirarsi dal Paese”.
Un vero e proprio groviglio geopolitico ed economico, all’interno del quale trova spazio il ruolo determinante della Cina. La società madre dei porti, CK Hutchison, vorrebbe vendere 43 porti in 23 Paesi, compresi i due sul Canale di Panama, a un consorzio guidato dalla società di investimenti statunitense BlackRock per 19 miliardi di dollari. Ma il no di Pechino è stato netto, motivato dalla mancanza di garanzie sul fronte della concorrenza.
“Il 60% del commercio cinese avviene via mare, e la Cina movimenta oltre un terzo del traffico globale dei container – dice Angela Stefania Bergantino, docente di economia all’Università di Bari e collaboratrice dell’Ispi –, seguendo una strategia di lungo periodo, la Maritime Silk Road Initiative (MsrI), componente marittima della Belt and Road Initiative (Bri), la Repubblica popolare ha incrementato gli investimenti non solo in scali portuali ma anche acquisendo società che gestiscono la logistica e le reti commerciali interne, comprese quelle ferroviarie. Tale operazione globale passa anche attraverso attori non statali: la Hph (Hutchinson Port Holding) di Hong Kong è, per esempio, il secondo operatore di terminal al mondo”. La ragione per la quale la Cina è diventata così importante per Panama, e viceversa, è legata al fatto che l’ex territorio colombiano è stato il primo a sottoscrivere la Bri nel 2018, consentendo alle imprese cinesi di gestire le due estremità del Canale, in particolare a Colón, “dove esiste – dice ancora Bergantino – la sede della più ampia Free Trade Zone dell’emisfero occidentale, e dove le società cinesi hanno contribuito all’adattamento del porto per le mega-porta container”.
Gli Stati Uniti restano comunque il principale fruitore del Canale: il 72,2% delle merci in transito in quella striscia d’acqua è infatti statunitense. Ma è una cifra destinata, fino a prova contraria, a cambiare, anche perché i Paesi latinoamericani non vedono l’ora di sganciarsi dall’incubo a stelle e a strisce, che si chiami Kissinger o Trump. Il controllo del Canale è l’emblema di uno scontro planetario e di un riassetto geopolitico che, a quanto pare, non risparmia nessuno. “In questo senso – sottolinea l’economista – avere gli uomini e le aziende di Xi Jinping massicciamente sulla porta di casa, rappresenta per il presidente dell’America first, una sfida non solo economica, ma anche politica e di immagine”.