
Se, come scriveva Albert Camus, “la pena di morte è il più premeditato dei delitti”, stiamo assistendo allora a un’impennata di crimini organizzati dai governi. Secondo il rapporto annuale di Amnesty International, le esecuzioni capitali sono aumentate del 32% nel 2024, raggiungendo la cifra di 1518, la più alta dal 2015. Una crescita brutale, nonostante il fatto che centoquarantacinque Paesi abbiano abolita questa pratica. Paradossalmente, infatti, nei quindici rimasti, la pena di morte viene oggi esercitata con una frequenza preoccupante: 2087 nuove condanne sono state emesse solo nel 2024, portando a più di ventottomila il numero di persone rinchiuse nel braccio della morte nel mondo.
L’aumento del totale globale è dovuto principalmente a un picco di esecuzioni in tre Paesi del Medio Oriente, che rappresentano il 91% delle condanne: Iran, Iraq e Arabia saudita. Circa un migliaio di persone (972) sono state messe a morte in Iran, con un aumento del 14% rispetto alle 853 del 2023, la cifra più alta registrata dal 2015. Tra queste, si contano anche quattro minori al momento del reato, in palese violazione del diritto internazionale, e altrettante esecuzioni pubbliche: un ritorno alla spettacolarizzazione della violenza di Stato. Dopo i moti del 2022, l’Iran ha infatti ripreso a punire severamente i dissidenti come monito per i cittadini e le cittadine. Un caso emblematico è quello di Verisheh Moradi, oppositrice curda condannata a morte per “ribellione armata contro lo Stato” (di cui abbiamo già parlato qui).
Arrestata nel 2023, Moradi ha raccontato, in una lettera scritta dalla prigione di Evin, le violenze subite: colpi d’arma da fuoco contro la sua auto, torture fisiche e psicologiche, negazione di cure mediche. All’inizio del settembre 2024, le autorità giudiziarie hanno aperto un secondo processo contro di lei in relazione alle proteste condotte, con altre persone detenute, proprio contro la pena di morte per stroncare il movimento “donna, vita, libertà”. Condannata a sei mesi di carcere per essersi espressa contro l’uso politico della pena di morte, oggi però è a rischio esecuzione. Il suo caso incarna il volto crudele e mirato della pena capitale: quello usato per reprimere e spegnere voci scomode. Molte tra le organizzazioni internazionali e le associazioni per la difesa dei diritti si stanno tuttora spendendo per il suo rilascio.
Da solo, l’Iran rappresenta il 64% delle esecuzioni a livello globale, seguito dall’Iraq, dove le condanne sono quadruplicate rispetto al 2023, e dall’Arabia saudita, che ha segnato il record del numero più alto in un anno mai registrato da Amnesty International, almeno 345 persone. In diversi casi, le vittime erano membri della minoranza sciita, accusati di avere partecipato a proteste antigovernative. Spesso senza processi equi, senza difesa adeguata, con confessioni estorte sotto tortura. Le motivazioni reali o fittizie, poi, vengono spesso trovate in casi di traffico di stupefacenti. Nel 42% delle condanne a livello globale, le esecuzioni sono legate a reati di droga. È il caso dell’Indonesia, di Singapore e dell’Iran, dove la pena capitale, secondo Amnesty International, diventa uno strumento di deterrenza mediatica più che una sentenza di giustizia. La legge si trasforma in un meccanismo vendicativo, esemplare, che scarica sul corpo dei condannati le paure e le tensioni di una società in crisi. Invece di riflettere sulle problematiche socioeconomiche che spingono le persone a rifugiarsi nelle droghe, vengono aumentate le pene.
Negli Stati Uniti, nonostante ci siano stati diversi casi di commutazione della pena (durante il suo mandato, Biden aveva evitato trentasette esecuzioni federali, mentre la California ha trasferito tutti i detenuti nel braccio della morte in strutture ordinarie), nel 2024 sono state eseguite venticinque condanne in nove Stati. In particolare, negli Stati del Sud come Alabama e Texas. In quest’ultimo è stato addirittura introdotto un nuovo metodo: l’ipossia da azoto, definito dalle Nazioni Unite come un possibile atto di tortura. Amnesty International denuncia, inoltre, la perpetuazione delle discriminazioni razziali, con giurie completamente bianche per imputati afrodiscendenti e sentenze capitali emesse su prove non inconfutabili.
Dietro l’evidenza delle statistiche, si agita una questione etica cruciale: chi ha il diritto di togliere la vita? Se uno Stato pretende questa prerogativa, che tipo di società rappresenta? Nel suo trattato Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria scriveva: “La pena di morte non è un diritto: è una guerra dichiarata dalla nazione a un cittadino”. Una guerra che, in un sistema capitalista, finisce per colpire quasi sempre i più vulnerabili: non solo i dissidenti, le minoranze religiose, gli stranieri, ma anche e soprattutto chi non ha il capitale necessario per permettersi una difesa appropriata. Ci si chiede poi perché, in un mondo che sta virando sempre più a destra, in cui le Chiese demonizzano l’aborto e l’eutanasia, non si parli di omicidi di Stato? Chi ha peccato non ha possibilità di redenzione?
Per fortuna, contro questa marea crescente si leva una voce di speranza dal continente africano. Solo due dei cinquantacinque Stati dell’Unione africana (Egitto e Somalia) hanno eseguito condanne a morte nel 2024. Lo Zimbabwe ha ufficialmente abolito la pena di morte per i reati ordinari. “Questa legge è più di una riforma legale; è una dichiarazione del nostro impegno per la giustizia e l’umanità”, ha dichiarato in quest’occasione il ministro della Giustizia, Ziyambi Ziyambi. Anche lo Zambia, che ha abolito la pena capitale nel 2023, ha reso l’abolizione irrevocabile ratificando il Secondo protocollo Onu. Insieme, questi gesti politici tracciano una direzione chiara: la giustizia evolve, e si possono creare spazi di confronto per evitare che lo Stato, e quindi un governo, abbia prerogativa di vita o di morte sui suoi cittadini e cittadine.