
Se, com’è probabile, il Movimento 5 Stelle sarà ricordato, nel racconto postumo di questi anni, come un partito primatista di resurrezioni, uno dei capitoli di quella storia sarà dedicato al clamoroso e inatteso successo della manifestazione contro il riarmo del 5 aprile a Roma. Per l’ennesima volta era stato dato per morto, dopo le elezioni europee del 2024 (sotto il 10% in una consultazione nazionale). A meno di un anno da quella batosta, seguita da qualche altra delusione elettorale a livello locale, Giuseppe Conte riemerge come uno dei leader dell’opposizione al governo Meloni, in una piazza che ha travalicato ampiamente i confini dell’attivismo a 5 Stelle.
Conte era già riuscito nell’impresa di “normalizzare” almeno in parte la sua organizzazione. Il Movimento è stato costretto, nella fase dell’assemblea costituente, a scegliere un “campo”: quello progressista, sia pure con la precisazione che i 5 Stelle sono “indipendenti”; sta mitigando le rigide regole delle origini sui limiti ai mandati elettorali, pensate dai fondatori per impedire la formazione di un ceto politico e di un gruppo dirigente; soprattutto si è disfatto, con una doppia votazione degli iscritti fra novembre e dicembre, dell’ingombrante figura del garante Beppe Grillo. Ma convocando in ostinata solitudine il corteo contro il riarmo – e (di fatto) anche contro lo sterminio dei palestinesi – l’ex presidente del Consiglio ha fatto un ulteriore, duplice, passo in avanti. Da un lato, ha dimostrato con la forza dei numeri – che non erano probabilmente i centomila annunciati dal palco, ma certamente nell’ordine delle diverse decine di migliaia – che anche nell’era post-Grillo esiste una capacità organizzativa del Movimento. I 5 Stelle sono in grado di portare in piazza una fetta di opinione pubblica “normale”, fatta di gente comune con poca esperienza di manifestazioni, pochi cori in repertorio, ma una robusta voglia di partecipazione politica. Insomma, un pezzo di quello che fu la base del boom grillino. Dall’altro lato, ha dimostrato di essere in grado di rivolgersi all’esterno, a un arcipelago di forze intellettuali (non solo la pattuglia del “Fatto quotidiano”: in piazza, da semplice cittadino, si è visto il Nobel per la Fisica Giorgio Parisi) e civili (Arci, Acli, Greenpeace, Tavola della Pace e molti altri), e soprattutto al popolo disperso della diaspora della fu “sinistra radicale”, che, pur diviso in mille litigiosi rivoli, si è ritrovato in buona parte a sfilare per le strade di Roma con le bandiere della pace e della Palestina.
Eppure, per inseguire questi risultati, Conte ha dovuto fare i conti con l’ostilità manifesta non solo di larga parte del mondo politico, ma anche della quasi totalità dell’ecosistema dell’informazione (ostilità talvolta astiosa ai confini del ridicolo, se si pensa agli accorati appelli alla diserzione lanciati da qualche firma dei grandi quotidiani). Come ha fatto Conte a superare l’isolamento nel quale ha rischiato di trovarsi? Individuando, nell’accelerazione della deriva bellicista dell’Unione europea, un fattore simbolico di grande chiarezza, uno spartiacque comprensibile per chiunque. Tanto che la mobilitazione, che inizialmente nasceva anche contro l’inazione del governo Meloni sulla crisi industriale e sul caro-energia che taglia le gambe alle famiglie e alle imprese, ha progressivamente assunto il carattere di manifestazione per la pace tout court. In sostanza, il Movimento 5 Stelle ha fatto politica. Il Pd si è limitato a inviare una delegazione di parlamentari e dirigenti, un segnale di amicizia ma non certo di adesione: va bene essere “testardamente unitari”, come ama ripetere Elly Schlein, ma non sarebbe stato sostenibile per la segretaria accodarsi a una manifestazione convocata da un altro partito, e non solo per i contenuti politici, che pure per il Pd rappresentavano un problema non secondario. Tuttavia, non è un caso che i due leader di Alleanza verdi-sinistra, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, il cui legame con il Pd resta inscalfibile, abbiano parlato dal palco dei Fori imperiali facendo appello al “dovere di costruire un’alternativa” (il primo) e alla responsabilità che tocca “a noi, insieme, uniti” (il secondo).
“Questa piazza – è la risposta agli interlocutori di centrosinistra che il presidente del M5S ha affidato a una intervista concessa al “Corriere della sera” – ci chiede di costruire un’alternativa su punti fermi, messaggi chiari senza ambiguità”. Ma è proprio in quelle due parole, “senza ambiguità”, che si sostanzia la sfida di Conte ai potenziali alleati per una alternativa al governo in carica.
In definitiva, il day after della mobilitazione ci consegna uno scenario politico che rende apparentemente impraticabile non solo l’inquietante “cancellazione” (politica, per carità) dei 5 Stelle, auspicata dal leader di Azione, Carlo Calenda, ma anche un percorso del centrosinistra che possa prescindere da Conte e dai suoi, isolarli, metterli ai margini, magari in vista di un ennesimo tentativo di governo di unità nazionale. Ci vorrà tempo per valutare se la scommessa vinta dal Movimento e dal suo leader in piazza avrà avvicinato o allontanato la prospettiva della costruzione di una reale alleanza alternativa alle destre di governo. E, probabilmente, non saranno le mosse di Conte ma quelle degli altri leader dell’ex “campo largo” a fornire la risposta a questi dubbi.