
Nella storia c’è un uomo con il suo cappello da cowboy seduto sul portico della sua casetta; in braccio ha il suo fucile e guarda verso l’orizzonte dal quale, da un momento all’altro, potrebbero arrivare i cattivissimi indiani ululanti e decisi a uccidere lui e la mogliettina che, dentro la casa, sta cucinando e forse pensa al cappellino che vuole ordinare da Parigi per farsi bella. Al cowboy piace tutto questo e pensa: “Ah, se non ci fossi io qui a proteggerla che ne sarebbe di lei; se me ne andassi a cercare l’oro (le terre rare?) in California, gli indiani se la porterebbero via in un battibaleno”. Questa è la storia che ha in testa il nuovo presidente degli Stati Uniti e che racconta ai suoi creduli sostenitori: noi fatichiamo, spendiamo per il bene di tutti, delle nostre mogli e dei nostri figli, cioè dei nostri alleati europei, e loro che fanno? Si divertono, ci sfruttano, e noi qui a pagarne il prezzo. È ora di finirla!
Non stupisce che uno come Trump la pensi così. Quello che stupisce è che la stessa storia la raccontino i leader europei e gran parte dei media ai propri cittadini: guardate – dicono – che gli Stati Uniti, che ci hanno protetto generosamente fin qui, non vogliono più farlo ed è ora che anche noi facciamo la nostra parte e provvediamo alla nostra sicurezza; è arrivato il momento che diventiamo anche noi come il cowboy che protegge la propria casetta dai cattivissimi indiani. Ma ragionare così vuol dire essere afflitti da quella che gli psicologi chiamano “sindrome di infantilizzazione”, che provoca una perdita di autostima, un senso di impotenza e di subalternità rispetto a chi sta intorno, quando invece le condizioni oggettive sarebbero completamente diverse.
Quali sono allora le condizioni oggettive della sicurezza europea? È presto detto. Gli Stati Uniti hanno vinto (con l’aiuto determinante dell’Unione sovietica) la Seconda guerra mondiale. D’intesa con i sovietici hanno occupato militarmente l’Europa occidentale, vi hanno installato decine di basi militari e portato centinaia di migliaia di soldati. Per governare le nuove conquiste hanno pensato che la cosa più conveniente fosse costituire un’alleanza militare, la Nato, in cui fossero comunque loro, i vincitori, ad avere il comando. Oltretutto, avere un certo numero di alleati servizievoli poteva giovare (e ha giovato concretamente) nel corso delle numerose guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto dopo la guerra mondiale, in cui vari Paesi hanno partecipato, con loro risorse e soldati, individualmente o come Alleanza atlantica.
Quanto alle basi militari, grazie al fatto di essere un’alleanza e non un’occupazione, ci sono evidenti vantaggi, dal momento che i Paesi “ospitanti” pagano circa la metà delle spese necessarie. I soldati americani di stanza nei vari Paesi europei sono circa centomila, meno del 5% delle forze armate americane, e il loro costo aggiuntivo è costituito dalla sola indennità di trasferta. E gli armamenti? Solo una piccola parte vengono importati a spese degli Stati Uniti; la maggior parte, circa il 55%, sono sì armi americane, ma acquistate con soldi europei.
A fronte di questi costi relativamente modesti, ci sono notevoli vantaggi per gli europei, ma anche per gli americani; vantaggi militari, perché nell’eventualità di un conflitto con la Russia, ex Unione sovietica, l’Europa diventerebbe la prima linea di difesa avanzata a protezione del continente americano. Anche la deterrenza nucleare opererebbe nello stesso modo: nel caso malaugurato in cui i russi impiegassero armi atomiche, a essere colpiti sarebbero in prima battuta i siti europei, dove si trovano poche centinaia di ordigni americani. Sia la Russia sia gli Stati Uniti si guarderebbero bene dallo scaricare le migliaia di testate nucleari di cui dispongono sui rispettivi territori, annientandosi reciprocamente.
La presenza americana sul suolo europeo offre, quindi, grandi vantaggi strategici e tattici non solo per gli europei ma anche per gli americani, a un costo relativamente modesto, che per di più è sostenuto direttamente o indirettamente in larga misura dagli europei. La realtà non è quella definita con una buona dose di volgarità da Trump (“gli europei ci fregano”), e neppure quella dell’impotenza e subalternità, che oggi gli europei raccontano a se stessi; bensì una situazione di win-win, in cui entrambi vincono pagando di meno di quello che farebbero individualmente – almeno fino a oggi.
Il vantaggio principale dell’alleanza tuttavia non è solo militare. È soprattutto economico. Grazie al controllo delle principali organizzazioni finanziarie mondiali (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione internazionale del commercio), nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno sviluppato un florido mercato per le proprie esportazioni, acquistando a basso prezzo merci e materie prime prodotte altrove. Grazie al fatto che il dollaro, sostenuto dalla potenza economica e militare americana, è di fatto la moneta principale degli scambi internazionali e la riserva di ultima istanza, gli Stati Uniti hanno potuto accumulare un enorme debito pubblico, senza subire i contraccolpi di cui soffrono i comuni mortali (alti tassi di interesse e inflazione).
Lo stesso Piano Marshall, che ha aiutato la ricostruzione dell’Europa nel dopoguerra, non è stato un atto di disinteressata generosità. È stato, per gli Stati Uniti, un progetto di intelligente interesse particolare, che ha consentito loro di acquisire nuovi mercati per i propri capitali e merci in Paesi che, per quanto distrutti dalla guerra, disponevano del know-how e delle strutture organizzative necessarie; permettendo allo stesso tempo a europei e americani di riconvertire senza scosse le proprie economie di guerra, dando vita a un trentennio di crescita e prosperità.
Lungi quindi dalle fantasie di Marte che protegge Venere, propalate già venti anni fa dai neocons, l’alleanza tra le due “divinità” ha portato benefici a entrambe, garantendo sicurezza e prosperità con un’equa divisione dei costi. L’Europa ne ha guadagnato, ma anche l’America, sul piano economico e militare. Se ci sono aggiustamenti da fare, si facciano, ma sarebbe il caso di smettere di infantilizzare l’Europa. Non c’è certo bisogno di “un nuovo sceriffo in città” (secondo l’ormai aurea frase di J.D. Vance). Se gli indiani dovessero attaccare la fattoria, molto più utile del cowboy sulla veranda sarebbe la signora dentro casa, che, mentre cucina e pensa al cappellino di Parigi, ha anche un fucile a portata di mano appeso sopra la porta.