La lotta dei lavoratori del porto di Genova, che hanno da tempo denunciato il traffico di armi (dirette probabilmente in Yemen e in Siria) che si svolgeva sulle navi saudite della flotta Bahri, e di cui abbiamo parlato in un precedente articolo di “terzogiornale”, ha trovato un’eco e un nuovo impulso anche in altre realtà portuali.
A Livorno, su segnalazione del Collettivo autonomo lavoratori portuali di Genova (Calp) e della Associazione Weapon Watch il 14 maggio scorso è stata rifiutata la nave Asiatic Island, battente bandiera di Singapore, carica di armi ed esplosivi diretti al porto israeliano di Ashdod. I lavoratori, aderenti alla Unione sindacale di base (Usb), hanno spiegato di aver chiesto chiarimenti “alla Capitaneria di porto, all’autorità portuale e alla Asl” riguardo al carico trasportato dalla nave; poi, di fronte all’assenza di risposte, hanno motivato il rifiuto della Asiatic Island, che pare dovesse imbarcare materiale militare in sosta al molo Italia, sostenendo che “oltre alla tematica della guerra c’è anche un problema oggettivo di sicurezza per i lavoratori e per la popolazione”. La nave è ripartita senza imbarcare nulla alla volta del porto di Napoli, dove però non ha trovato un’accoglienza migliore. Anche a Napoli i lavoratori hanno incrociato le braccia, e un secco comunicato di Si Cobas portuali recita: “Le nostre mani non si sporcheranno di sangue per le vostre guerre”.
A Ravenna era stato proclamato uno sciopero per ragioni analoghe il 3 giugno prossimo. I portuali ravennati erano infatti decisi a fermare un carico diretto in Medio Oriente che avrebbe dovuto salpare in quella data. La nave Asiatic Liberty, che si sospettava trasportasse armamenti, era diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod. In un loro comunicato i sindacati hanno affermato che i lavoratori non avevano intenzione di caricare container di armi. La lotta dei portuali ha portato immediati risultati: per scongiurare lo sciopero, e con ogni probabilità anche per evitare di subire le conseguenze del clamore mediatico che i sindacati erano riusciti ad attirare sulla questione, l’armatore ha rinunciato al carico.
La questione del traffico di armi nel porto, posta all’ordine del giorno dal Calp, nel frattempo si va ampliando a Genova: in un volantino apparso sul loro sito, i membri del collettivo chiamano in causa oltre alle navi Bahri anche la compagnia imprenditoriale Ignazio Messina, che avrebbe spedito container con merci pericolose provenienti da aziende leader nella produzione di armamenti. La compagnia di navigazione Messina ci ha tenuto in ogni caso a segnalare che tutte le merci imbarcate avevano ricevuto le debite autorizzazioni. Il 16 maggio il Calp ha organizzato un presidio in città rivolto alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, e una nuova manifestazione cittadina è prevista per il prossimo 5 giugno. Nel frattempo cinque membri del Calp sono da qualche mese indagati dopo le proteste, con varie imputazioni non direttamente legate, però, alla vicenda del respingimento delle navi Bahri.
Questo piccolo ciclo di lotte antimilitariste – che hanno avuto luogo in realtà tra loro diverse, presentando anche modalità differenti di svolgimento – ha fatto emergere l’ipotesi di creare un coordinamento tra i porti italiani sulla questione, con l’intenzione di impedire il transito e l’attracco nei porti civili delle navi che trasportano armi. Colpisce il fatto che siano i lavoratori portuali a mobilitarsi, visti i mutamenti che hanno interessato il lavoro portuale negli ultimi decenni, dalla frammentazione delle relazioni gerarchiche interne alla forza lavoro, fino agli effetti del decentramento e del progressivo aumento dei ritmi lavorativi. La riorganizzazione della logistica della catena marittima – e nello specifico del lavoro portuale – dovuta alle pressioni del mercato, infatti, ha condotto a fenomeni di ristrutturazione, di crescente flessibilizzazione e di parziale precarizzazione della forza lavoro: il che rende certo più difficile organizzare mobilitazioni di massa.
Va inoltre rilevato quanto appaiano ancor più importanti queste lotte in presenza di tutta una serie di segnali orientati in direzione diametralmente opposta. Come ricorda un articolo di Sofia Basso pubblicato su “Domani” del 29 maggio scorso, è stata messa recentemente in questione la legge 185/90 che proibisce l’export di armi a paesi in guerra o che violano i diritti umani, e, in particolare, è stato attaccato un provvedimento del governo Conte 2, che prevede la rimozione delle autorizzazioni alla esportazione di missili e bombe verso Riad e Abu Dhabi. Voci provenienti dal ministero della Difesa e da istituti di consulenza su affari internazionali stanno insistentemente chiedendo una revisione della 185, giudicata “ormai antiquata”, e invocano posizioni “meno ostative”, che mettano l’Italia in grado di giocare un ruolo diverso nello scacchiere geopolitico del Mediterraneo e del Medio Oriente. Nella stessa direzione sembrano andare le considerazioni espresse da esperti militari, che evidenziano il delinearsi di un quadro in cui la scelta riguardo a chi vadano fornite o negate le armi può risultare determinante nel mutevole gioco delle alleanze.
La cosa non è sfuggita a numerose Ong, da Greenpeace a Amnesty a Save the Children. Ben trentatré associazioni hanno lanciato un appello in cui si denuncia una “manovra concentrica” tesa a “smantellare le norme che regolano le esportazioni di armi”. Le Ong chiedono la riapertura di un dibattito parlamentare sul tema, ricordando il contesto di mobilitazione sociale in cui nacque trent’anni fa la legge. Le preoccupazioni geopolitiche che stanno interessando il settore sembrano infatti prevalere su quelle economiche, dato il ruolo ridotto che la vendita di armi italiane gioca sul Pil, stimato intorno all’uno per cento. La posta in gioco della partita aperta dalle proteste dei portuali è dunque principalmente di tipo politico e sociale, ed è tutt’altro che irrilevante.
Chi saprà raccogliere il messaggio che arriva dai porti?