
I teorici della funzione performativa del linguaggio (tra cui quell’Austin autore di un Come fare cose con le parole) sarebbero sorpresi vedendo l’effetto travolgente che ha avuto l’appello di Michele Serra su “Repubblica”, che invita a stringersi intorno all’Europa senza colore di bandiera, manifestando – non si sa contro chi o a favore di chi – il prossimo 15 marzo, tutti avvolti sotto il manto protettivo della bandiera azzurrostellata. Se il testo dell’appello è di per sé già meritevole di una disamina linguistica e concettuale, lo è perché esprime una sorta di superstizioso timore determinato da forze che fondamentalmente non si comprendono, ovvero lo smarrimento di chi, convinto fino a ieri di vivere nel migliore dei mondi possibili, scopre che le cose si mettono male non dall’ascolto del filosofo o del politologo (non sia mai!), ma dai torvi sguardi degli amici al bar.
Per capire quanto accade, vale forse la pena di fare qualche considerazione preliminare. Parlare senza dire nulla o quasi: nessun altro gruppo professionale ha perfezionato questa modalità linguistica quanto i nostri politici, e Serra, che è giornalista ma da quel mondo proviene, lo sa bene, manovrandone gli strumenti con disinvoltura. L’arte della retorica politica permette anche di esprimere qualcosa in modo tale che possa essere compreso nelle maniere più diverse, un po’ come accadeva con le antiche sibille.
Serra ci offre così, in forma oracolare, un topos abusato del nonsense politico: “Vogliamo contribuire a dare forma al futuro dell’Europa”. In ballo sarebbero “la libertà e l’unità dei popoli europei”. Nella retorica politica la chiarezza è rara quanto la distinzione: quale Europa? In quale modo promossa o rafforzata? Quanto ai “popoli” europei è perfino dubbio che esistano in quanto tali, e sono in genere evocati dai sovranisti, con ben diversa, anzi opposta funzione. Naturalmente, il tutto dovrà avvenire scendendo in piazza senza bandiere politiche. Pare quasi una boutade, richiama alla mente quei pavidi compagni di scuola, al liceo, che si dichiaravano disposti a partecipare solo a “manifestazioni apartitiche”. A convincere Serra a muoversi, infatti, non è un’idea o un progetto, ma “la quantità delle mail ricevute” in risposta a precedenti affermazioni più o meno sulla stessa vacua linea.
Egli utilizza gli strumenti consueti della retorica politica per costruire una struttura sintattica elusiva, in cui si pone furbescamente come motore immobile della manifestazione inopinatamente e quasi suo malgrado promossa, dichiarando che organizzare “non è il [suo] mestiere”. Ma allora perché parla? – viene da chiedersi: perché queste figure di semi-vergini politiche, opinionisti ibridi e ambigui, sempre con il piede in più scarpe, non possono semplicemente restarsene zitti, ma devono esternare il loro non-pensiero, profetizzando su cose che non esistono ancora, come la fine dello European way of life? Non mancano nel testo toni melodrammatici, e uno sgradevole lirismo di sapore marinettiano, come quando si esprimono dubbi su una “manifestazione di persone in carne e ossa: se sia un rito arcaico e pedestre di fronte al dilagare fulminante delle adunate algoritmiche”.
L’uso di un linguaggio forbito e allusivo, e di termini scopertamente manipolativi (“libertà”, “popoli”), serve a fingere di essere competenti, producendo una simulazione che in realtà non ha nulla a che fare con il vero compito del politico, che, come ricordava Max Weber, sarebbe quello di fornire idee, fare fronte all’insolito ed essere una guida. In questo senso, Serra gioca qui, con sorniona riluttanza, il ruolo della mosca cocchiera, ha una funzione suppletiva dove la politica – governo e opposizione – tace smarrita, travolta dal precipitare degli eventi in una direzione imprevista.
Così l’embrassons-nous in una qualche piazza italiana ha il senso di colmare un vuoto politico, un’assenza di parola, un’ansia collettiva cui i partiti nostrani, che hanno finora finanziato l’Ucraina seguendo pedissequamente le indicazioni statunitensi, e rinunciando a un ruolo autonomo, non sanno dare risposta, se non ripetendo il mantra dell’aggressore e dell’aggredito. Mentre si prepara il riarmo, e si invoca una tregua che probabilmente non ci sarà, l’appello di Serra, che invoca in maniera tardiva e generica tanto un sussulto di consapevolezza quanto la costruzione di un esercito europeo, mostra tutta la cattiva coscienza della politica italiana ed europea, l’incapacità di pensare, anzi la paura del pensiero, che hanno lungamente caratterizzato una stagione. Incapacità che si è tradotta in un non voler vedere le ragioni politiche, sociali ed economiche che hanno condotto alla situazione attuale. Dopo avere, dieci anni fa, strangolato la Grecia, con la scusa che non c’erano soldi da spendere, ora il debito in Europa si può fare, ed enorme, ma per riarmarsi.
La performatività tossica dell’appello conduce dunque in un mondo che preferisce rimanere lontano dalla realtà, lontano dalla possibilità di trovare soluzioni, avvolti nell’ovatta di una coperta azzurra, in viaggio verso un luogo magico in cui i sogni degli opinionisti si avverano e gli eserciti dei soldatini di piombo marciano da soli. Da qualche parte, laggiù, over the rainbow.