Affiora un passato irrisolto, si risentono parole d’ordine e dichiarazioni di stile. E tornano antiche contraddizioni. “Ombre rosse”, spettacolo già nel nome, azione esemplare. In Francia ci sono altri ricercati ma se ne scelgono dieci, un numero carico di significato simbolico.
Sembra la fine della dottrina Mitterrand. È davvero così? Di quella decisione, risalente al 1985 e preceduta nel 1982 dal posizionamento del ministro della giustizia Robert Badinter, non si conosce uno scritto formale programmatico; il suo perimetro è confuso. Fra l’altro, si è detto che la protezione di Parigi non avrebbe riguardato fatti di sangue, ma non è vero. Nel testo invisibile ognuno legge quello che vuole.
Sulla dottrina Mitterrand in Italia non esiste una monografia, solo studi limitati o cenni. Sin dagli anni Ottanta la “dottrina” fu lasciata nel vago per non legarsi le mani; in concreto, fu una sorta di provvedimento di clemenza subordinato all’espatrio e all’abbandono delle armi. Contribuì il fatto che alcuni gruppi di fuoco fossero collegati ai movimenti di liberazione, anticoloniali o indipendentisti, e alla questione palestinese: la neutralizzazione di persone armate, anche libere, era una contropartita concreta ma inconfessabile.
L’intreccio fra espatrio e norme su pentitismo e dissociazione aveva prodotto distorsioni. Quando da un pentito o dissociato presente nel processo, cioè in carcere, si ricavavano elementi contro un imputato riparato all’estero, il baricentro della responsabilità tendeva ad alterarsi. Norme scritte e non scritte producevano un combinato disposto disomogeneo: l’assenza beneficiava di una sospensione informale ma pesava sulla pena; la presenza aveva un trattamento opposto. Gli esiti per il presente e l’assente si diversificavano a prescindere dai fatti giudicati. Adesso, molti fra quelli che erano stati catturati in Italia sono liberi, e agli espatriati si chiede di riprendere la posizione iniziale.
Bisogna ricordare anche l’impiego della tortura, con un’apposita squadra di aguzzini; uno di loro – il suo soprannome ripugnante era “professor De Tormentis” – è stato intervistato nel 2012 dal “Corriere della sera”. E l’applicazione esagerata del concorso morale, come ha notato Livio Pepino su “Volerelaluna”. Se i criteri sul concorso di persone, quello non materiale, fossero applicati sugli incidenti sul lavoro, sull’evasione fiscale, sulle bancarotte e sui reati ambientali, con le misure in uso da allora sui conflitti sociali, andrebbero dietro le sbarre intere formazioni politiche e di categoria imprenditoriale.
Dalla Francia fanno sapere che con questa decina considerano chiusa la questione; ma l’effetto risolutivo della scelta dei dieci, solo quelli, significa che la decisione è politica e non di procedura. Anche questo è imbarazzante: ci sono i familiari delle persone uccise dagli altri. Cercare le ombre produce incubi e conti che non tornano mai. In fondo, la dottrina Mitterrand ne esce confermata, perché di nuovo si adattano le scelte alle circostanze, come accadde su molte cose: la “linea della fermezza” per Aldo Moro divenne la curva morbida per Ciro Cirillo. Meno si chiarisce il passato, più è difficile liberarsene.
Adesso si insiste sulla richiesta di spiegazioni e rivelazioni. È la posizione di alcuni parenti delle parti lese, e c’è chi ha prospettato una rinuncia alla pena purché i ricercati dicano e svelino. Le richieste di chiarimenti sembrano appoggiate anche dal Quirinale: in un’intervista su “Repubblica”, che rivendica le conquiste sociali di quegli anni, si legge che ci sono ancora “ombre, spazi oscuri, complicità”. Mattarella non si riferisce a fatti particolari ma all’insieme, compreso il caso Moro. Evidentemente pesa ancora un senso di irrisolto. Quanto al neofascismo, è in corso un nuovo processo sulla strage di Bologna (per “terzogiornale” lo segue Stefania Limiti).
Si ripete che i processi di allora furono ineccepibili e che non vi furono leggi eccezionali; allo stesso tempo, che c’è da fare chiarezza. Eppure, se sentenze regolari accertarono le responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio (è la formula legale di oggi), le persone di cui si invoca la consegna non devono aggiungere nulla. Le condanne sono considerate limpide, esaurienti, ma i condannati dovrebbero illustrare vicende oscure, incomplete. Un condannato in via definitiva non ha il diritto di spiegarsi in un’aula però si propone che si spieghi, non si sa dove, come se il giudizio continuasse. La sensazione di una giustizia decentrata nel tempo e nello spazio, connessa alla combinazione di assenza e pentitismo, torna negli inviti a spiegare il chiaro, a svelare il noto. Sentenze che la procedura chiama irrevocabili sono revocate in dubbio.
È stata ricordata l’esigenza di giustizia anche a distanza di tanto tempo. Per i crimini emersi dall’Armadio della vergogna – l’archivio sulle stragi nazifasciste rifrequentato dalla giustizia militare a partire dagli anni Novanta –, pochi anni fa decine di tedeschi hanno avuto l’ergastolo ma solo uno è andato in carcere (perché l’ha consegnato il Canada), gli altri sono morti indisturbati in Germania. I loro complici repubblichini dopo la guerra furono amnistiati, protetti e usati. La giustizia su quei massacri sarebbe servita a prevenire il terrorismo neofascista dei decenni successivi, ma le ombre nere non interessano.
Sui dieci ora pendono vertenze legali, in Francia. È già una sconfitta: la storia ridotta a diatribe tecniche, con rischi in più. Il Brasile prima rifiutò la consegna di Cesare Battisti criticando l’Italia degli anni Settanta e Ottanta; dopo le reazioni scomposte di Roma, confermò il rifiuto condannando l’Italia berlusconiana; con Bolsonaro la decisione fu ribaltata. Si era cominciato negando che una condanna in Italia fosse stata politica; poi diventarono politicamente scottanti il passato e il presente, da Roma a Brasilia. Negare la politica è un fatto politico, ovvio. E in Francia ci sono già reazioni: nell’appello su “Le Monde” si legge che in Italia il diritto non è cambiato negli ultimi quarant’anni, e che anzi le condizioni della difesa sono peggiorate.
A questo punto il ragionevole dubbio, che all’epoca dei processi non esisteva come istituto formalizzato, emerge su contesti e implicazioni, come se qualcosa di inappagante fosse sempre rimasto. Il punto è che, come scrive Adriano Prosperi in Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi 2021), c’è un senso degli eventi, da preservare malgrado le manovre del potere: è quello con “l’odore vivo della carne umana”.