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Nella tarda serata di martedì 25 febbraio, l’esercito israeliano ha bombardato la città di Al-Kiswah, nel sud della Siria. Gli aerei di Tel Aviv sono giunti a bassa quota e hanno attaccato una postazione militare, uccidendo due persone e ferendone molte altre, secondo fonti siriane. Il comando dell’esercito israeliano ha confermato l’attacco, dichiarando che “la presenza di forze militari e risorse nella parte meridionale della Siria rappresenta una minaccia per i cittadini di Israele”. In realtà, l’attacco è una palese violazione della sovranità e dello spazio aereo siriano, e ha colpito un luogo molto lontano dal confine con Israele, distante circa trentacinque chilometri dalla zona cuscinetto interna alla Siria. La città di Al-Kiswah dista solo venti chilometri dalla capitale Damasco.
Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha fatto sapere che il raid rientra nella “nuova politica” israeliana per “smilitarizzare la Siria meridionale”. Tel Aviv non vorrebbe nessuna forza armata in tutta la zona a sud del Paese. Lunedì 24 febbraio, l’esercito aveva ammesso di aver effettuato decine di incursioni già oltre la buffer zone, sequestrando e distruggendo mezzi militari, infrastrutture, armi, appartenenti prima alle forze armate siriane sotto il governo di Bashar al-Assad e ora al governo di Hayat Tahrir al-Sham (Hts). Ahmad al-Shara (anche conosciuto come al-Jawlani) è il presidente ad interim della Siria, e ha annunciato che intende garantire il monopolio dello Stato sulle armi. Ma Tel Aviv non è interessata alle rassicurazioni della nuova guida politica del Paese. Netanyahu ha dichiarato che non permetterà “alle forze dell’Hts o del nuovo esercito siriano di entrare nel territorio a sud di Damasco”. Vuole la smilitarizzazione delle province di Quneitra, Daraa e Sweida, e pretende di rimanere in Siria “per tutto il tempo necessario”.
L’esercito, già da settimane, è impegnato nella costruzione di strutture militari e di lunghi caseggiati prefabbricati con riscaldamento, elettricità e tutto ciò che è necessario perché i militari superino le rigide temperature invernali. Ma l’intenzione è quella di rimanere ben oltre il termine della stagione fredda. Non è certo un segreto che Tel Aviv punti al controllo totale del Golan occupato. E la caduta di Assad rappresenta un’occasione storica che potrebbe portare nelle tasche israeliane il Golan e molto altro. Non è un caso che l’offensiva militare dello Stato ebraico sia proseguita senza sosta già dalle prime ore dell’avanzata fulminea delle forze di Hts. L’esercito ha conquistato un territorio enorme, circa ottocento chilometri quadrati, approfittando della disfatta delle forze armate siriane e del desiderio di al-Jawlani di accreditarsi come interlocutore credibile per l’Occidente.
Il leader di Hts, infatti, non ha mai pronunciato una parola che fosse realmente dura nei confronti di Tel Aviv, mentre questa occupava il suo territorio e terrorizzava la popolazione. Con ogni probabilità, il gruppo jihadista immaginava che avere dei nemici in comune con lo Stato ebraico sarebbe bastato a conquistare la sua benevolenza. L’opposizione all’Iran, la guerra contro la presenza di Hezbollah, il tentativo di bloccare il transito di armi da Teheran al Libano, la cacciata dell’odiato Assad, non sono bastati, tuttavia, a frenare le mire espansionistiche di Israele. Che ha un piano: quello di inglobare la popolazione drusa siriana, provare a comprarla, con la promessa di permessi di lavoro, di sistemazioni migliori e di una “protezione” che gli abitanti non hanno mai chiesto.
Per questo motivo, lunedì scorso centinaia di persone sono scese in piazza a Quneitra, Deraa, nelle città druse, ma anche a Damasco, Homs, Latakya – per chiarire che sono e si sentono cittadini siriani, che non hanno bisogno della protezione israeliana, e per chiedere che lo Stato ebraico si ritiri dal loro territorio. “Non permetteremo che [la Siria meridionale] diventi il Libano meridionale”, ha dichiarato Katz, ordinando alle forze governative siriane di non stabilirsi nell’area a sud del Paese. Anche il ministro degli Esteri, Gideon Sa’ar, ha duramente apostrofato il nuovo governo: “Sento parlare di transizione in Siria. Questo è ridicolo. Il nuovo governo è un gruppo terroristico jihadista islamista di Idlib, che ha preso Damasco con la forza. Siamo tutti felici che Assad sia fuori” – ha continuato – “ma dobbiamo avere aspettative realistiche. […] Hamas e Jihad islamico stanno agendo in Siria per creare lì un altro fronte contro Israele”. L’eventuale attività di gruppi armati palestinesi in Siria è pura speculazione, a cui è davvero molto difficile dare credito, data la situazione di Hamas a Gaza, la corrispettiva debolezza di Hezbollah, e l’assenza di omicidi extragiudiziali, a cui Israele ci ha da tempo abituati.
Il cambio della posizione governativa sulla Siria non è passato inosservato, sollevando non pochi dubbi nella società israeliana. Secondo diversi analisti, Tel Aviv avrebbe potuto approfittare per tenere rapporti migliori con i nuovi leader. In fondo, Netanyahu si è preso addirittura il merito di avere provocato la caduta di Assad, indebolendo Hezbollah e l’Iran. La posizione dura nei confronti di Hts, e i bombardamenti su una Siria che tenta di rinascere dalle macerie, potrebbero allontanare le comunità locali e quella internazionale da Israele, e spingere alcuni Paesi, come la Turchia, a intervenire per tentare di fermare Tel Aviv. Senza contare che la leadership dello Stato ebraico non ha mai considerato la matrice jihadista di un gruppo come un problema reale, quando si trattava di collaborare in funzione anti-Assad. “Potrebbe esserci una finestra di opportunità per migliori legami con la Siria. Tuttavia, sembra che la nuova politica a Tel Aviv voglia chiudere quella finestra”, scriveva il “Times of Israel” dopo i bombardamenti a sud di Damasco. Proprio in quest’area le scelte strategiche diventano ancora più fumose. Una Siria meridionale svuotata dell’esercito e del governo potrebbe significare maggiore instabilità e maggiori rivendicazioni da parte delle minoranze e delle autonomie locali. Cosa che Israele proverebbe a controllare, ma che potrebbe, in futuro, ritorcerglisi contro.