
Ci sono vittorie elettorali che hanno un gusto amaro, quasi fossero condite con un pizzico di veleno. L’affermazione dei cristiano-democratici, nelle elezioni anticipate in Germania, sembra proprio avere questo sapore. Numericamente, un successo indiscutibile, anche se si tratta del secondo peggior risultato di sempre per il partito. La Cdu-Csu vince le elezioni con netto margine e riconquista la cancelleria dopo soli tre anni. La soddisfazione per Friedrich Merz è però limitata. Considerata l’estrema debolezza dei partiti della naufragata coalizione “semaforo”, e la congiuntura internazionale tutt’altro che rassicurante in cui le elezioni hanno avuto luogo, era immaginabile che i conservatori potessero ottenere anche più del 28,4% alla fine conseguito. Poco lontano si profila l’ombra inquietante di AfD, che raddoppia i voti rispetto alla tornata delle politiche precedenti, e diviene il secondo partito della Germania, con quasi il 21%.
Ha poco da disperarsi Olaf Scholz che, intervistato a caldo, si chiede ancora come sia possibile che un quinto degli elettori tedeschi abbia votato un partito reazionario e xenofobo come quello di Alice Weidel, ma deve accontentarsi di un 16,4% che, per come si erano messe le cose, non è affatto da gettar via. La débâcle della Spd è stata più netta a Est, dove il partito ha rimediato poco più di un patetico 11%. La bastonata è stata pesante: Scholz ha dichiarato che non farà parte della delegazione che il suo partito invierà alle consultazioni per la formazione del nuovo governo. Spariscono dal parlamento i liberali, rimasti sotto la soglia del 5%; il loro segretario e ministro delle Finanze della coalizione governativa uscente, Christian Lindner, ha annunciato le dimissioni, pianificando il ritiro dalla politica.
Non che i cristiano-democratici abbiano fatto una grande campagna elettorale, si sono limitati a raccogliere le spoglie del governo che, nel frattempo, si era autodistrutto per i suoi conflitti intestini. E hanno anche commesso errori che fanno nascere qualche sospetto sulla loro reale capacità politica: invece di concentrarsi su solidi contenuti conservatori, e di insistere sulla loro capacità di preservare quella prosperità che pare oggi sfuggire ai tedeschi, hanno oscillato tra una campagna elettorale gridata, volta a bastonare ulteriormente la coalizione governativa già agonizzante, e l’adozione di idee dall’estrema destra: cosa che ha portato solo guai (vedi qui).
In parte, anche la Linke, data troppo presto per spacciata, e che invece è uscita bene dalle urne, con quasi il 9%, deve ringraziare la campagna elettorale miserella della Cdu per quanto conquistato in extremis. Ha riguadagnato terreno, infatti, a partire dal momento in cui la sua candidata di punta, Heidi Reichinnek, ha duramente criticato Merz al Bundestag per aver accettato i voti dell’AfD, e ha riscosso un enorme e imprevisto successo sui social network per questa uscita. E la Linke ha raccolto anche voti di sinistra in uscita dalla Spd e dai verdi, trovando inoltre un forte seguito tra i giovani per le molte manifestazioni organizzate in tutta la Germania di opposizione alla destra estrema, e ancora per il sostegno dato alla causa palestinese, nonostante la dura repressione. Evidentemente, il vecchio motto, “la lotta paga”, non è del tutto desueto, e un approccio coraggioso e radicale è in grado di intercettare il malessere che serpeggia nella società.
I verdi riescono a contenere le perdite, più per la capacità politica del manovriero Robert Habeck, riuscito a limitare i danni di una politica di governo atlantista e bellicista, che per la presenza di Annalena Baerbock, in verticale calo di popolarità, che pare scomparsa dai radar. Habeck ha fatto campagna sui temi classici del global warming, rinnovando l’impegno alla decarbonizzazione, mentre Friedrich Merz dichiarava che il green non è più una priorità dei tedeschi, e che ci si potrà nuovamente occupare della questione solo quando saranno stati risolti i problemi che attanagliano l’industria.
Fuori dal parlamento per una manciata di voti anche la BSW di Sahra Wagenknecht, che ha pagato la mancanza di radicamento a Ovest e diversi errori politici: tra cui, il supporto dato alla mozione anti-immigrazione che le ha alienato una parte dell’elettorato di sinistra su cui ancora poteva contare. Nei sondaggi ha perduto oltre un punto percentuale dopo la scelta di allinearsi a Cdu e AfD, per votare un provvedimento che poi non è passato.
E ora? Difficile pensare che il balletto delle consultazioni duri troppo a lungo: la Germania ha bisogno di un governo solido in fretta, per quanto possa apparire complesso il quadro delineatosi dopo le elezioni, con un Paese spaccato in due: a Ovest, Cdu e socialdemocratici, a Est AfD. Non ci sono alternative alla grosse Koalition se tiene il Brandmauer, cioè lo sbarramento anti-AfD. I cristiano-democratici hanno più volte affermato che non vogliono governare con i verdi, ma in questo caso la maggioranza sarebbe risicata, solo di una dozzina di voti, che potrebbero rivelarsi insufficienti per governare, cosicché la coalizione potrebbe anche essere allargata ai Grünen.
La stabilità del governo a venire non è solo una questione tedesca: la terza economia mondiale dovrebbe fornire l’ancoraggio che garantisca la stabilità dell’Unione europea in questa drammatica situazione internazionale. Ci vuole una guida solida: l’economia del Paese ha urgente bisogno di un impulso, e la questione dell’immigrazione richiede azioni sensate, non gesti incoerenti e propagandistici. Merz sarà innanzitutto alle prese con questi compiti. La determinazione dimostrata, durante la campagna, deve essere accompagnata da successi politici e dalla capacità di raggiungere accordi. Altrimenti il governo nascerà zoppo e non funzionerà, come preconizza Weidel, l’esponente dell’estrema destra, che scommette su nuove elezioni nel giro di un paio d’anni.
Segnale positivo l’affluenza molto alta – all’84% –, il che mostra che quando sono in ballo questioni ritenute vitali l’astensionismo sparisce, con buona pace dei teorici della crisi delle democrazie e dell’esodo politico. Rimane una riflessione sugli sconfitti. Il governo “semaforo” aveva elaborato un ambizioso programma progressista “Osare più progresso” (vedi qui), che è rimasto sulla carta non solo per la mancanza di volontà di realizzarlo, ma per l’evoluzione imprevista degli eventi: la guerra a poche centinaia di chilometri dalle frontiere, la crisi energetica, l’implosione dell’industria. Bisogna prenderne atto: la sconfitta è uno degli aspetti della vita politica, in quanto la democrazia produce un’alternanza di vittorie e fallimenti. La sconfitta elettorale è un momento di sanzione, in cui un’ambizione viene ostacolata, in cui si spezza un progetto per un Paese, ed è la forma più comune e concreta di fallimento in politica. Ma non tutte le sconfitte equivalgono alla morte politica delle idee e degli individui che se ne fanno portatori. Il segreto è, al di là della delusione, riuscire a non essere cattivi perdenti, riorganizzandosi e continuando a perseguire obiettivi che si ritengono politicamente ed eticamente giusti, anche quando la storia sembra andare in un’altra direzione.
Nella foto: Friedrich Merz