Circolano ipotesi di riforma del codice degli appalti che possono essere interpretate come un messaggio indiretto di cortesia nei confronti dell’economia illegale. E non si dica che qui si esagera. La proposta centrale, da inserire nel Decreto Semplificazioni che è sul tavolo di Mario Draghi in queste ore, riguarda il subappalto della quasi totalità di un’opera, senza particolari vincoli per l’impresa a cui viene subappaltata. Nella migliore delle ipotesi quella norma consente alle imprese di “fare cartello”. È noto il meccanismo, funziona più o meno così: tre o quattro principali imprese vincono ciascuna un appalto che poi si riappaltano tra loro, i ricavi sono massimi, i costi minimi, le imprese meno aggressive sono fuori dai giochi. Le imprese si tuffano nell’affare a prezzi stracciati, poi fanno lievitare i costi in corso d’opera, perché spunta sempre qualche imprevisto.
Avete sentito una levata di scudi dei cultori del libero mercato? Noi no, e dire che ne abbiamo in abbondanza, illuminati dallo stratega-leader di Confindustria Carlo Bonomi, forse distratto dalla sua battaglia contro il blocco dei licenziamenti: sì, perché, dice, se le imprese più in difficoltà non possono licenziare si crea una distorsione del mercato. Non sentite anche voi un certo odore di sciacalli?
C’è poi il fronte delle mafie. Oggi le organizzazioni criminali sono fortissime perché hanno accumulato molti soldi, centinaia di milioni di euro, grazie al mercato degli stupefacenti saldamente nelle loro mani – continuerà così finché non verranno legalizzati, ma tant’è. Ci spiega Isaia Sales, storico delle mafie molto attento all’economia mafiosa, che quando le economie criminali sono così ricche i loro soldi vanno ovunque, soprattutto se l’economia legale langue. È dall’inizio della pandemia che sentiamo parlare tutte le massime autorità in campo dei rischi di ripetere un crack dello Stato come ai tempi del post-terremoto. Allora fu la festa dei camorristi: Raffaele Cutolo si creò uno Stato, la Nuova Camorra Organizzata, fiume di soldi per pagare dipendenti e le loro famiglie e per finanziare il proprio apparato repressivo, un mondo a parte che sedeva al tavolo della politica e garantiva la sopravvivenza di buona parte della città, mentre i Gava stavano in parlamento. È storia patria, non va dimenticata.
La relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) dello scorso febbraio dovrebbe essere usata come una bibbia da tutti coloro che devono decidere il destino delle risorse del Pnrr, e il nostro. La Dia ha già parlato di “seri rischi di infiltrazione e la crescita di riciclaggio e corruzione”; la pandemia, scrivono gli analisti, rappresenta una “grande opportunità” per le mafie e lo snellimento delle procedure di affidamento degli appalti e dei servizi pubblici comporterà “seri rischi di infiltrazione mafiosa dell’economia legale, specie nel settore sanitario”. E poi: “è oltremodo probabile” che i clan tentino di intercettare i finanziamenti per le grandi opere e la riconversione della “green economy”. Le indagini raccontano di una criminalità organizzata che, durante il lockdown, ha continuato ad agire sottotraccia, con un calo delle “attività criminali di primo livello” (traffico di droga, estorsioni, ricettazione, rapine), ma un aumento al Nord e al Centro dei casi di riciclaggio e, al Sud, dei casi di scambio elettorale politico-mafioso e di corruzione. Stabile l’usura, fattore sintomatico di una pressione “indiretta” comunque esercitata sul territorio. Sono anche cresciute le segnalazioni di operazioni sospette (Sos) pervenute alla Direzione rispetto allo stesso periodo del 2019, un dato indicativo se si considera il blocco delle attività commerciali e produttive della scorsa primavera. La disponibilità di soldi consente alle cosche di organizzarsi il proprio consenso sociale anche attraverso forme di assistenzialismo a persone o imprese in difficoltà, con il rischio che le attività imprenditoriali medio-piccole “possano essere fagocitate nel medio tempo dalla criminalità, diventando strumento per riciclare e reimpiegare capitali illeciti”.
A costo di annoiarvi vogliamo insistere ancora: “Diventa fondamentale”, si legge nella relazione, “intercettare i segnali con i quali le organizzazioni mafiose punteranno, da un lato, a ‘rilevare’ le imprese in difficoltà finanziaria, esercitando il welfare criminale e avvalendosi dei capitali illecitamente conseguiti mediante i classici traffici illegali; dall’altro, a drenare le risorse che verranno stanziate per il rilancio del Paese. Da Nord a Sud, infatti, il comune denominatore delle strategie mafiose, in questo periodo più di altri, pare collegato alla capacità di operare in forma imprenditoriale per rapportarsi sia con la pubblica amministrazione, sia con i privati. Nel primo caso per acquisire appalti e commesse pubbliche, nel secondo per rafforzare la propria presenza in determinati settori economici scardinando o rilevando imprese concorrenti o in difficoltà finanziaria. La Dia parla di “propensione per gli affari che passa attraverso una mimetizzazione attuata mediante il ‘volto pulito’ di imprenditori e liberi professionisti attraverso i quali la mafia si presenta alla pubblica amministrazione adottando una modalità d’azione silente che non desta allarme sociale”.
Ma cosa vale una analisi degli specialisti della Dia di fronte ai nostri telegiornali che gridano la rabbia degli imprenditori contro la lentezza della burocrazia? Occorre velocizzare le pratiche, liberarci dai lacci che imbrigliano la nostra borghesia imprenditoriale, pronta a lanciarsi verso le sfide dei mercati se non fosse che lo Stato, gigante mostruoso, oppone la sua forza arcigna e glielo impedisce. Per ora le norme sono lì ferme; mentre scriviamo apprendiamo che verranno intanto stralciate dal Decreto Semplificazioni. Se va bene se ne riparlerà tra un po’ nel provvedimento specifico sugli appalti. Se va bene.