Tra Roma e Tripoli il legame è sempre stato indistruttibile. Anche se da fratelli coltelli. L’Italia si è macchiata di crimini orrendi durante il colonialismo del secolo scorso. Il regime fascista fece ripetuto uso di gas letali sulla popolazione, in Cirenaica. Poi ci furono il protettorato inglese, e ancora il golpe militare incruento (nessuna vittima) del colonnello Gheddafi. L’Italia fu chiamata a rispondere dei suoi misfatti. Da pochi mesi al potere, nel 1970, il colonnello ordinò la confisca dei beni degli italiani e il loro rimpatrio. In cinquant’anni, i rapporti tra i due Paesi hanno vissuto alti e bassi. Ma partiamo dall’oggi. Secondo un’esclusiva del “Foglio” di qualche giorno fa e ripresa dall’“Unità” il capo dei servizi segreti italiani è volato a Tripoli il 18 gennaio scorso, nel giorno in cui la premier Meloni ha reso pubblico di essere iscritta nel registro degli indagati di Roma per la vicenda Almasri, insieme ad altri ministri. Secondo “Il Foglio”, i nostri servizi hanno discusso con il premier tripolitano Dbeibeh e il capo della procura di Tripoli, degli “indesiderati”, dei libici ricercati – i torturatori, gli assassini, i sequestratori. Il sospetto di uno scambio a Tripoli di informazioni riservate, carpite dalla Corte penale internazionale, è stato esplicitato negli articoli del “Foglio” e dell’“Unità”. La notizia inquietante è che i servizi hanno annunciato di voler denunciare per calunnia i giornalisti.
Ora, se si andasse a processo i servizi dovrebbero documentare il loro viaggio e quindi svelare atti segreti o riservati. Se non lo facessero non sarebbe un processo “normale” ma fortemente viziato. Non ci sarebbe nulla di male se – nonostante i giudizi negativi sulla transizione libica, Paese sempre di più in mano alle milizie e ai referenti politici internazionali di ogni milizia – la nostra intelligence dialogasse anche con il “nemico”. Ma perché denunciare i giornalisti che fanno il loro mestiere?
Ritornando al 1970, dopo la cacciata degli italiani, sembravano senza prospettive i rapporti tra l’Italia e la Libia. Ma l’opportunità per riprendere le relazioni non solo economiche arrivò presto, nella primavera del 1971. A Trieste uno yacht che batteva bandiera panamense, con equipaggio militare e un rifornimento di congegni per l’innesco di esplosivo ad alto potenziale, doveva andare in Libia. Dietro questo tentativo di golpe, c’erano i servizi inglesi e i mercenari pagati dalla famiglia del deposto re Idriss, che dal Ciad dovevano raggiungere Sebha, la capitale del Fezzan. L’operazione fu neutralizzata da una soffiata dei nostri servizi segreti che allertarono i libici, e i rapporti tra i due Paesi ritornarono floridi. L’Italia vendeva armi e i libici ci davano il petrolio.
Dieci anni dopo – siamo nel 1980 – gli apparati di intelligence e il governo italiano fecero buon viso a cattivo gioco e consegnarono, in tre tornate, gli elenchi con gli indirizzi dei fuoriusciti libici oppositori del regime. Il colonnello impose loro di rientrare in patria, pena la loro eliminazione. Almeno cinque di loro furono uccisi, altri due rimasero solo feriti, in Italia. E ancora Roma avvisò (nel 1986) Gheddafi dell’imminente intervento americano nel golfo della Sirte. Il colonnello si salvò, ma una figlia (che aveva adottato) morì sotto le macerie delle bombe volute dal presidente Reagan.
Le ragioni che legano l’Italia alla Libia sono in realtà il petrolio e il gas. Il premier Silvio Berlusconi aiutò Gheddafi, che voleva che la comunità internazionale togliesse l’embargo economico contro il suo Paese. E a partire dai primi anni del nuovo millennio, la Libia cominciò a usare anche l’immigrazione clandestina come arma di “persuasione” per spingere l’Italia a premere per la fine dell’embargo.
Siamo l’unico Paese occidentale che ha sottoscritto un trattato di amicizia tra i due popoli, anche come risarcimento del periodo coloniale. Berlusconi, del resto, non fece mistero di non apprezzare la caduta del regime di Gheddafi. La vicenda del generale Almasri affonda le radici in questa storia dei rapporti tra la Libia e l’Italia. Dai governi democristiani (e del pentapartito) della cosiddetta prima Repubblica ai governi Berlusconi. Ma con le primavere arabe, e con l’evoluzione del quadro politico italiano, si è chiusa la fase dei rapporti privilegiati tra Roma e Tripoli.
Un ruolo decisivo, come si sa, l’hanno avuto i francesi nell’eliminazione di Gheddafi; ma l’esito della rivoluzione libica è stato opposto a quanto le diplomazie occidentali avevano sperato. Più di dieci anni dopo la caduta del colonnello, la Libia è sempre più in mano alle milizie armate. Cirenaica e Tripolitania sono ancora sull’orlo di una separazione.
Per la destra italiana, a partire dall’inizio di questo secolo, la Libia è stata solo un problema di ordine pubblico, di sicurezza. Altro che “Piano Mattei” o modello “Cassa del Mezzogiorno” per finanziare le politiche sui flussi migratori dal Nord Africa! In questi primi anni del millennio, sono stati pagati i clan, le milizie, i trafficanti di immigrati, per ridimensionare il numero di sbarchi. Quanto è corta la memoria di questo nostro Paese! Ascoltando il dibattito parlamentare sul rilascio del generale assassino, torturatore, stupratore, gli esponenti di Fratelli d’Italia e della Lega hanno fatto a gara a chi si professava più rispettoso della legge.
Si dovrebbe vergognare, per esempio, il ministro Roberto Calderoli che ha sulla coscienza decine di morti a Bengasi. Era il 15 febbraio 2006: Calderoli si presentò in tv mostrando una maglietta anti-islam. Gli squadroni della morte del colonnello Gheddafi aprirono il fuoco per domare la rivolta antitaliana. La folla inferocita aveva distrutto il consolato italiano e la chiesa cattolica.
Non è la prima volta che il governo Meloni ha dovuto evitare l’incidente diplomatico con i padroni della Libia. Almasri è il capo della polizia giudiziaria della Tripolitania, Saddam Haftar figlio del generale Khalifa Haftar al comando della Cirenaica, fu fermato e rilasciato immediatamente perché inseguito dagli spagnoli che lo indagavano per traffico d’armi. Da sempre i terroristi, i trafficanti di uomini, e anche di armi e droga, hanno utilizzato il nostro Paese per nascondersi, per riposare, per rifornirsi di identità fasulle.
La Libia di oggi è insomma un dejà vu. Nessuno in realtà lavora a un futuro di speranza per il popolo libico. La diplomazia e la guerra perseguono altri interessi.