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Appena sei mesi fa, l’Italia ha rischiato un altro incidente “diplomatico” con la Libia del generale Khalifa Haftar. Tra il luglio e l’agosto del 2024, suo figlio Saddam è stato trattenuto, identificato, interrogato all’aeroporto di Capodichino (Napoli). Su di lui c’era una segnalazione spagnola che invitava a controllarlo, seguirlo. Era sospettato da Madrid di traffico di armi. Furono, quelle, ore di panico italiano. Proprio lui che era diventato un punto di riferimento, lui che riusciva a tenere ben compressa la valvola di sfogo della immigrazione irregolare verso l’Italia, seppure avendo un alto tariffario per ogni immigrato in meno diretto sulle nostre coste; per una incomprensione di un “atto dovuto”, di cui l’Italia avrebbe fatto volentieri a meno, rischiava di diventare il casus belli, insomma lo “sgarro” nei confronti della Cirenaica del generale Haftar. Sei mesi dopo, dall’Interpol che ha sede in Francia, parte il mandato d’arresto della Corte penale internazionale nei confronti del “torturatore”, “stupratore”, “sequestratore” e “assassino”, il generale Najeem Almasri.
Non un semplice aguzzino, un capo milizia di quart’ordine, ma il capo della polizia giudiziaria di Tripoli che le carceri controlla tutte. Non solo Mitiga, alle porte di Tripoli, la nostra “Ciampino” da dove si alzavano e si alzano in cielo i “voli di stato” e l’aeronautica libica. Carcere delle torture e dell’inferno. Ai tempi di Gheddafi, il carcere della vergogna si chiamava Abu Salim: lì il colonnello aveva rinchiuso islamisti, oppositori, dissidenti, gettando le chiavi nei tombini. I loro familiari non potevano vederli né sapere dove fossero. E un giorno, il 28 giugno del 1996, il regime decise di cancellare quella Libia che si opponeva, piazzando mitragliatori nei cortili e decimando la popolazione detenuta. Furono giustiziati 1.269 detenuti.
Ma i nuovi aguzzini neppure conoscono quella storia, eppure sono i figli di quei carcerieri. Saranno due o tremila i miliziani armati e stipendiati nella Libia sbriciolata che sopravvive con le presenze ingombranti delle diplomazie (armi, risorse e intelligence occidentali, arabe e russe), che nei primi anni della rivoluzione si è fatta la guerra. Tripolitania contro Cirenaica e il Fezzan senza voce, ma territorio appetibile. Sono in gran parte la peggio gioventù libica. Non i loro marescialli o generali, ma le nuove leve, i “macellai semplici”, quelli che ai tempi della caduta di Gheddafi avevano tra i 10 e 15 anni. Ragazzini innocenti.
Oggi Bengasi e Tripoli coabitano in una Libia che ha perso la dimensione di Stato nazionale, e sembra essere diventata una confederazione di interessi armati, di petrolio e gas, di contrabbando, e di grandi rapine delle risorse, che invece dovrebbero essere distribuite tra la popolazione. Ogni milizia ha suoi referenti politici internazionali. Più che altrove, nel mondo del terzo millennio, il “padrinaggio” internazionale sceglie le tribù, gli interessi, i settori che governano l’economia.
E dunque perché meravigliarsi dell’accoglienza festosa del generale Almasri quella notte a Tripoli? Quanta ipocrisia ieri in parlamento! Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non solo ha offeso la Corte penale internazionale dell’Aia, dando degli incompetenti a quei magistrati, incapaci di produrre un atto giudiziario coerente. Ma, nel farlo, ha legittimato ancora di più i banditi, i corsari, i contrabbandieri delle libertà negate, i torturatori, che ben possono appellarsi agli artificieri che hanno deciso di fare esplodere le fondamenta del diritto penale condiviso, le istituzioni internazionali create all’indomani della Seconda guerra mondiale. La “latitante” Giorgia Meloni, che non ha voluto andare in aula a difendere la decisione di liberare un torturatore e accompagnarlo a casa con un volo di Stato, non riesce a vedere la Libia come un problema politico, ma solo come un pericolo per la sicurezza nazionale.