Primo: Barack Obama, nel 2009, aveva promesso di chiudere il carcere di massima sicurezza di Guantánamo a Cuba, dove gli Stati Uniti hanno una base militare al cui interno si trova anche una prigione. Entrambe sono considerate un’occupazione illegale di territorio dal governo cubano. L’allora presidente degli Stati Uniti si era impegnato a rilasciare i detenuti o a sottoporli a un giusto processo. Il suo successore, Joe Biden, voleva chiuderle per sempre quelle gabbie, ma non ne ha fatto niente. Donald Trump lo trasformerà in un centro di detenzione per i migranti illegali con la sua prima legge del secondo mandato: un provvedimento che renderà più facili gli arresti anche dei richiedenti asilo senza documenti. Ha annunciato la creazione di un centro di detenzione per trentamila migranti, destinato a coloro che non potranno essere rimpatriati. Con le politiche dell’ultima settimana, Trump ha assicurato che “nessuno entra più negli Stati Uniti”.
Secondo: il Dipartimento della sicurezza nazionale americano (Dhs) ha annunciato la cancellazione dell’estensione dello status di protezione speciale (Tps, la sigla in inglese), che consente a più di seicentomila venezuelani di risiedere e lavorare legalmente nel Paese. Questo prevedeva il documento firmato da Biden il 17 gennaio, che giustificava tale misura con “la grave emergenza umanitaria che il Paese continua ad affrontare, a causa delle crisi politiche ed economiche sotto il regime disumano di Nicolás Maduro”. Oltre a migliaia di migranti venezuelani, la misura colpisce anche più di 234.000 salvadoregni, che pensavano di essere al riparo dalla deportazione, e che avrebbero ottenuto permessi di lavoro almeno fino all’ottobre 2026. Lunedì 20 gennaio, nel suo discorso di inaugurazione, il presidente Trump aveva dichiarato: “Ogni ingresso illegale sarà immediatamente interrotto e inizieremo il processo di rimpatrio di milioni e milioni di criminali stranieri nei luoghi da cui provenivano”. E si sta dando da fare.
La faccenda dei rimpatri non è una novità. Le autorità statunitensi per l’immigrazione hanno effettuato centinaia di voli di questo tipo all’anno e per diversi anni, ma non con aerei militari, che tra l’altro sono in grado di ospitare meno passeggeri dei normali velivoli precedentemente impiegati. Bush, Clinton, Obama, il primo Trump, e Biden – tutti hanno rimpatriato. Chi lo ha fatto di più è stato Clinton, quello che l’ha fatto di meno, è stato il Trump del primo mandato. Ma, come insegna il salvadoregno Nayib Bukele (vedi qui) di cui Trump è un grande ammiratore, la spettacolarizzazione della mano dura è in funzione del fine politico. Dovendo dare prova dell’inizio dell’età dell’oro, Trump ha fatto partire i primi voli militari alla volta del Guatemala e di El Salvador. Quanto al Messico, la presidente Claudia Sheinbaum ha dapprima vietato l’atterraggio dell’aereo cargo, con i primi compatrioti finiti nelle reti delle forze dell’ordine statunitensi, ma poi ha deciso di collaborare. L’addetta stampa della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha annunciato su X che “i voli di deportazione sono iniziati. Il presidente Trump sta inviando un messaggio fermo e chiaro a tutti: se entri illegalmente negli Stati Uniti d’America, dovrai affrontare gravi conseguenze”.
Qualche giorno fa, due aerei militari che dovevano riportare in patria alcuni migranti colombiani hanno reso tese le relazioni tra Bogotà e Washington. Il presidente colombiano, Gustavo Petro, ha negato loro l’ingresso nel Paese, chiedendo agli Stati Uniti un trattamento dignitoso per i suoi compatrioti. E ha pubblicato un messaggio sui social network in cui affermava che “un migrante non è un criminale e deve essere trattato con la dignità che un essere umano merita (…). Ecco perché ho fatto respingere gli aerei militari statunitensi che arrivavano con i migranti colombiani”, rifiutando che i deportati fossero ammanettati; cosa che gli Stati Uniti hanno fatto anche sui voli arrivati in Brasile. “I cittadini statunitensi che lo desiderano possono stare in Colombia, io credo nella libertà umana”, ha detto Petro. “Ma più di 15.666 sono irregolari e per le leggi colombiane devono regolarizzare il loro soggiorno. Non mi vedranno mai bruciare una bandiera gringa o fare una ‘retata’ per riportare gli illegali ammanettati negli Stati Uniti. I veri libertari non aggrediscono mai la libertà umana. Siamo l’opposto dei nazisti,” ha concluso il presidente colombiano. In risposta Trump, fulmineo, ha minacciato una serie di misure di rappresaglia, tra le quali dazi del 25% sulle merci colombiane importate, aumentabili fino al 50%, e la limitazione dei visti ai viaggiatori, compresi i funzionari governativi, che avessero voluto entrare negli Stati Uniti. La Colombia è il massimo produttore di fiori delle Americhe, un prodotto che esporta abbondantemente negli Stati Uniti. In vista del 14 febbraio, festa di San Valentino, l’applicazione dei dazi minacciati dal bullo di Washington sarebbe stata una catastrofe per un Paese che è il terzo maggiore socio commerciale degli Usa, le cui imprese, con filiali sul territorio colombiano, generano più di novantamila impieghi. Oltre ai fiori, Bogotà esporta negli Stati Uniti caffè, avocado, banane e petrolio.
Poco dopo l’inizio del braccio di ferro tra Trump e Petro, Germán Bahamón, direttore generale della Federazione nazionale dei coltivatori di caffè, ha avvertito delle gravi conseguenze economiche che la crisi avrebbe potuto comportare per le oltre 560.000 famiglie che dipendono da questa coltura. Inoltre, ha ricordato che l’industria del caffè negli Stati Uniti contribuisce con l’1,3% del Pil della Colombia, con un volume di affari che vale due miliardi. Anche Javier Díaz, presidente dell’Associazione nazionale del commercio estero (Analdex), è intervenuto, giudicando lo scontro molto grave per il Paese e le esportazioni colombiane, e sottolineando che l’impatto di questi dazi non avrebbe riguardato solo il caffè e i fiori, ma anche altri settori strategici come le banane, l’avocado e la produzione manifatturiera. Díaz ha spiegato che, tra il 25 e il 30% delle esportazioni colombiane, sono destinate agli Stati Uniti: un’escalation tariffaria avrebbe influenzato immediatamente e irreversibilmente l’economia nazionale. “Più del 25% di ciò che la Colombia esporta nel mondo è destinato agli Stati Uniti, non solo petrolio, ma anche prodotti agricoli chiave”, ha ricordato.
Si spiega, così, il veloce passaggio alla diplomazia avvenuto in poche ore, cosa che ha consentito alla Casa Bianca di far sapere che la crisi era chiusa, dato che il governo di Bogotà aveva calato le braghe e accettato “tutti i termini del presidente Trump”. Anche se l’impasse, come lo ha definito la Colombia, è stato superato, molti sono i dubbi sul futuro delle relazioni bilaterali; mentre, secondo molti osservatori, sarebbe questione di poco tempo, forse anche solo di mesi, il superamento degli Stati uniti da parte della Cina come principale partner commerciale della Colombia.
Le critiche di Petro ai voli riguardavano le condizioni disumane dei rimpatri. Simili critiche, del resto, sono provenute anche dal Brasile, il cui governo si è lamentato con gli Stati Uniti perché gli ottantotto brasiliani deportati qualche giorno fa erano ammanettati sull’aereo e perché hanno subito “maltrattamenti” in volo. Il velivolo aveva avuto problemi meccanici e l’aria condizionata non funzionava, condizioni che il ministro degli Esteri ha descritto come “tragiche”. Il ministero degli Esteri brasiliano ha definito “inaccettabile” l’uso “indiscriminato di manette e catene”, sostenendo che la pratica viola i termini di un accordo bilaterale firmato nel 2017, che prevede un trattamento “dignitoso, rispettoso e umano” per i deportati. Martedì 28 gennaio, il governo brasiliano ha anche annunciato l’istituzione di una postazione di assistenza ai migranti all’aeroporto di Belo Horizonte per ricevere adeguatamente i cittadini deportati. Petro ha messo a disposizione l’aereo presidenziale per rimpatriare i suoi connazionali. E lo stesso ha fatto Lula.
Sul piano politico, la presidente dell’Honduras, Xiomara Castro, aveva indetto, per il 30 gennaio, una riunione della Commissione economica per l’America latina e i Caraibi (Celac) a Tegucigalpa, poi saltata per la fine della crisi tra gli Stati uniti e la Colombia. Mentre, qualche giorno fa, aveva ricordato all’amministrazione americana che l’Honduras ospita gratuitamente sul suo territorio una base statunitense, con la minaccia di chiuderla. Intanto, come ha rivelato l’americana Nbc News, un alto funzionario dell’amministrazione Trump ha confermato che quasi la metà dei detenuti non ha precedenti penali. E la mancanza di documenti non è considerata un reato penale negli Stati Uniti. Costituisce un reato il reingresso illegale dopo una precedente deportazione.
Se il confronto muscolare con la Colombia è stato alla fine evitato, e, grazie alla diplomazia, è stato vinto da Trump che se n’è fatto bello, le chance del neopresidente nei confronti del Venezuela, di Cuba e del Nicaragua sembrano minori, dato che sanzioni, dazi e limitazioni dei visti non dovrebbero spaventare più di tanto i governi di quelle nazioni, abituate da tempo a conviverci. Le loro economie non sono legate a trattati con gli Stati Uniti o al commercio con il padrone americano, e l’aumento della pressione su quei Paesi recalcitranti potrebbe perfino avere un effetto controproducente, aggravando il fenomeno migratorio. Così come potrebbe avere un indesiderato effetto inflazionistico sugli Usa l’utilizzo della clava daziaria nei confronti del Messico, vista l’interdipendenza delle economie dei due Paesi.
Secondo un documento del Servizio di immigrazione e controllo doganale, pubblicato da “Fox News”, hanno già ordini di deportazione in sospeso 42.084 cubani, 45.995 nicaraguensi e 22.749 venezuelani, cui si aggiunge la marea di migranti irregolari che le retate di Trump stanno cercando di acchiappare, seminando il panico. Al di là dell’utilizzo del campo di concentramento di Guantánamo, o di altre strutture cui Trump potrebbe fare ricorso seguendo le orme di Bukele, i problemi che dovrà affrontare sono l’insufficienza di tali strutture a fronte del numero dei migranti, e come potrà convincere Maduro, Ortega e i cubani a riprendersi i loro connazionali. Stando ad alcuni analisti, la situazione potrebbe spingere Trump a riconoscere una qualche forma di legittimità al regime venezuelano a scapito dell’appoggio incondizionato finora assicurato all’opposizione. Quanto a Cuba e al Nicaragua, l’aumento della pressione nei loro confronti, affinché si riprendano i rispettivi fuoriusciti, potrebbe fare irrigidire ancor più i loro governi e spingerli a favorire l’esodo di chi vuole andarsene.
A quanto pare, e stando al buonsenso, la soluzione migliore sarebbe quella di favorire accordi migratori attraverso la concessione di incentivi, la cooperazione umanitaria e l’allentamento delle sanzioni. Affrontando, in altre parole, le cause fondamentali delle migrazioni, che vanno dalla persecuzione politica alla mancanza di opportunità economiche, al riscaldamento globale, all’insicurezza alimentare. Il tutto unito a misure di sicurezza alle frontiere e a programmi internazionali che favoriscano la stabilità e lo sviluppo di quei Paesi da cui si generano le migrazioni. Nella logica imperiale di Trump – e del comitato di affari che regna a Washington –, sono tutte misure che rientrano nell’aborrito approccio woke. Pertanto, se il giorno si annuncia da quello che abbiamo visto al mattino…