Nel suo primo discorso da presidente, Donald Trump ha confermato di volere inasprire le politiche migratorie, promettendo di fare ricorso a una legge sui “nemici stranieri” del 1798, che, durante la Seconda guerra mondiale, consentì la carcerazione dei cittadini statunitensi di origine giapponese. Ha annunciato che dichiarerà un’emergenza nazionale al confine meridionale degli Stati Uniti, dove sta inviando migliaia di militari. Ha detto di voler equiparare i cartelli dei narcotrafficanti ai terroristi. Ha minacciato Messico e Canada di applicare dazi del 25% sulle loro merci se non bloccheranno il traffico del fentanyl, cui si deve la morte di 75.000 persone negli Stati Uniti solo nel 2023. Ha espresso il desiderio di conquistare il canale di Panama. “La Cina sta gestendo il canale di Panama. Ma non l’abbiamo dato alla Cina. L’abbiamo dato a Panama e lo riprenderemo”, ha detto. Vuole cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America. Ha reintrodotto Cuba nella lista dei Paesi sponsor del terrorismo, che Biden aveva tolto negli ultimi giorni del suo mandato, mediatore il Vaticano, in cambio della liberazione di un certo numero di detenuti.
L’America latina sarà al centro della sua presidenza più di quanto ci si attendeva. Molto di più, comunque, di quanto è avvenuto durante il suo primo mandato, che ha visto numerosi Paesi della regione allontanarsi dalla galassia statunitense e avvicinarsi a Pechino. Quello a cui si è assistito, con il primo discorso, è una sorta di ritorno della dottrina Monroe adattata ai tempi: la dottrina proposta nel 1823 dal presidente degli Stati Uniti, James Monroe, che sosteneva l’idea di “America per gli americani” – intesi come statunitensi – in opposizione all’intervento europeo negli affari del continente. Il maggiore intervento in America latina, non necessariamente militare, ma, prima di tutto, economico e politico, è giustificato dalla competizione con la Cina.
Rispetto al primo mandato, nella squadra che il tycoon si è scelto, primeggiano i funzionari latinos originari della Florida. A cominciare dal segretario di Stato, Marco Rubio, la cui famiglia ha lasciato Cuba all’epoca della rivoluzione castrista. Egli porterà a un maggiore impegno nel limitare l’espansione economica cinese nella regione e a un aumento dell’aggressività, non solo verbale, contro i governi di Venezuela, Cuba e Nicaragua, che lo vedono come un nemico. Nella prossima settimana, Rubio comincerà un viaggio ufficiale nei Paesi dell’America centrale (escluso il Nicaragua).
The Donald ha affermato di seguire la situazione in Venezuela “con grande interesse”, aggiungendo che potrebbe adottare misure per fare pressione sulla dittatura di Nicolás Maduro (vedi qui) accusato di avere usurpato il potere dal 10 gennaio, dopo la frode elettorale di luglio. Ha anche fatto riferimento alla situazione interna del Venezuela, affermando che il Paese ha registrato un drastico declino negli ultimi venti anni. Ha affermato che “probabilmente smetteremo di comprare petrolio dal Venezuela. Non ne abbiamo bisogno” – spiegando che la misura rientrerebbe in una strategia più ampia di pressione sul regime venezuelano. Il 22 gennaio, il Dipartimento di Stato ha comunicato che Rubio ha avuto un colloquio telefonico “con il legittimo presidente del Venezuela, Edmundo González Urrutia, e la leader dell’opposizione María Corina Machado”. Almeno per il momento, l’entourage di Trump cercherebbe di ottenere l’abbandono di Maduro senza l’intervento militare degli Stati Uniti, spinto da un particolare motivo di urgenza, poiché, come ha riportato l’agenzia di stampa spagnola Efe, per la nuova amministrazione “il Venezuela è un problema perché sta inviando i suoi criminali negli Stati Uniti e genera preoccupazioni per la sicurezza nazionale”. Sono poco meno di otto milioni i venezuelani che hanno lasciato il loro Paese per ragioni economiche e politiche, di cui, secondo i dati del 2023 del portale “Statista”, 545.200 sono negli Stati Uniti. Sarà interessante vedere come Trump potrà convincere Maduro a riprendersi i compatrioti.
Le autorità statunitensi, da tempo, si sono dimostrate preoccupate per i due porti marittimi che sorgono alle due estremità del canale di Panama, gestiti da CK Hutchison Holdings, una società con sede a Hong Kong, proprietà di miliardari locali, che potrebbe, tuttavia, essere costretta dalle leggi cinesi a raccogliere informazioni di interesse militare per il governo di Pechino. Una eventualità che, comunque, le autorità panamensi scartano con fermezza. A rendere tutto più inquietante, c’è il fatto che i repubblicani si oppongono da tempo al trattato Torrijos-Carter, che ha trasferito la gestione del canale a Panama dal 2000, dopo l’ultima invasione statunitense nel 1989, il cui ricordo è ancora ben vivo nel Paese. Per quanto attraverso Panama passi solo il 21% delle merci cinesi, il canale ha per Pechino un’importanza strategica, tanto più che l’“impero di mezzo”, negli ultimi venti anni, ha notevolmente ampliato il suo ruolo di principale partner commerciale dell’America latina. Se nel 2002 il commercio tra la Cina e la regione valeva diciotto miliardi di dollari, tale importo è aumentato a cinquecento miliardi nel 2023.
A pochi giorni dalla vittoria elettorale di Trump, il presidente cinese Xi Jinping ha inaugurato il porto di Chancay, in Perù, finanziato con 3,5 miliardi di dollari. Il suo scopo è quello di collegare l’Asia e il Sudamerica, riducendo i costi logistici e i tempi di trasporto. La presenza di Xi, che ha anche fatto un giro diplomatico in America latina, testimonia della crescente influenza della Cina nella regione. È un fatto che oggi molti altri Paesi latinoamericani abbiano aderito al programma Road and Belt Initiative (Bri), e che la presenza di Pechino sia divenuta di dimensioni preoccupanti per Washington. Il Perù si sta posizionando come passaggio cruciale per il trasporto e il commercio tra il Pacifico e l’Atlantico, grazie anche alla costruzione di un ambizioso corridoio che collegherà Chancay con il Brasile. Questo progetto, chiamato “percorso amazzonico”, prevede un investimento di dieci miliardi di dollari e dovrebbe concludersi entro il 2025. Conferma l’interesse brasiliano nell’incrementare gli scambi con la Cina, già ora suo primo partner commerciale.
E Chancay è solo uno dei tanti progetti, dato che in Ecuador i cinesi finanziano la ristrutturazione dell’aeroporto di San Pablo de Manta, in Cile stendono un cavo sottomarino per facilitare le comunicazioni con l’Asia, e in Colombia costruiscono la prima linea della metropolitana di Bogotà. Mentre in Argentina, Paese il cui presidente era contrario a fare affari con i comunisti, la Cina ha avviato undici progetti di investimento in ferrovie, dighe, impianti solari e nucleari, e in Patagonia ha una base con un’antenna parabolica di trentacinque metri di diametro, per uso civile nel campo della scienza e della tecnologia, le cui informazioni non possono in alcun modo essere utilizzate per scopi militari. In generale, si stima che quest’anno la Repubblica popolare abbia investito cento miliardi di dollari in America latina.
Dopo Panama, che ha aderito per primo alla Bri, si sono aggiunti Uruguay, Ecuador, Venezuela, Cile, Paraguay, Bolivia, Costa Rica, El Salvador, Repubblica dominicana, Cuba, Nicaragua, Perù e Argentina, con Colombia e Brasile in lista di attesa. Per la sua ossessione anticinese, Trump potrebbe far pagare ai suoi alleati un prezzo salato innanzitutto attraverso il ricorso ai dazi. E Panama potrebbe essere il primo a farne le spese. Perché – come ha scritto Amalendu Misra, professore di politica internazionale, sulla rivista “The Conversation” – “se Trump andasse avanti e prendesse il canale con la forza, minerebbe gravemente la posizione degli Stati Uniti in America latina. Peggio ancora, potrebbe anche incoraggiare molte delle nazioni timorose a cercare apertamente alleanze militari con nemici degli Stati Uniti, come la Russia, la Cina e l’Iran, un risultato che sarebbe ben lungi dal rafforzare la sicurezza degli Stati Uniti”.
A indurre i Paesi latinoamericani a cercare legami ancora più forti con la Cina, potrebbe essere anche il ridotto sostegno degli Stati Uniti nei loro confronti. A tal punto che i progetti legati alla Bri sono spesso visti come più attraenti rispetto agli aiuti e agli investimenti occidentali, compresi quelli degli Stati Uniti, in quanto implicano meno richieste al Paese che riceve l’investimento. Oltre a ciò, il relativo disinteresse di Trump per le organizzazioni multilaterali, che potrebbe ridurre la capacità degli Stati Uniti di plasmare norme e politiche internazionali, lasciando le nazioni latinoamericane con meno motivi per schierarsi con Washington, potrebbe contribuire a rafforzare l’influenza della Cina a livello globale.
La politica sulla migrazione e sulla droga è un’altra priorità della nuova amministrazione, e coinvolge direttamente l’America latina, in particolare il Messico. Un qualsiasi piano statunitense che possa rispedire i migranti irregolari nei Paesi di origine provoca gravi difficoltà ad accoglierli di nuovo, per non parlare dell’impatto determinato dalla scomparsa delle rimesse che i migranti mandano nei Paesi di origine, vitali soprattutto per alcuni dell’America centrale, come Salvador, Honduras e Guatemala. Sulla droga, l’ala più dura del Partito repubblicano chiede, da un paio di anni, che organizzazioni come il cartello di Sinaloa o quello di Jalisco Nueva Generación siano classificate come terroristi, cosa che consentirebbe di portare attacchi tesi a decapitare quelle organizzazioni, anche se ciò è completamente contrario al diritto internazionale, e farebbe del Messico una vittima di un’invasione da cui avrebbe difficoltà a difendersi senza scatenare una grave crisi nella regione.
Si stima che un terzo dei quarantacinque milioni di stranieri che vivono negli Stati Uniti siano messicani. Di loro, secondo i dati del 2022 del Pew Research Center, quattro milioni sono senza status di immigrazione, su un totale di undici milioni senza documenti. Claudia Sheinbaum, ha concentrato parte della sua azione di governo sull’attenzione ai possibili effetti del nuovo mandato di Trump. Circa il fenomeno dei migranti, la presidente messicana ha detto che “riceverà i nostri connazionali nel migliore dei modi in caso di deportazione”. Intanto, da quando Trump ha vinto le elezioni, almeno sette carovane di migranti sono state sciolte dall’esercito, principale responsabile del controllo delle frontiere in Messico. Mentre l’ultima è partita dal sud messicano proprio il giorno del giuramento del neopresidente. Sheinbaum ha chiarito che la sua amministrazione si metterà in contatto con il governo degli Stati Uniti per coordinare i prossimi sforzi bilaterali in materia di migrazione. Sulla designazione dei cartelli del traffico di droga come terroristi, l’atteggiamento della presidente è stato meno diplomatico. Ha ricordato che “all’interno degli Stati Uniti operano anche gruppi criminali”, ribadendo che, sebbene Washington abbia il diritto di adottare misure contro il traffico di droga, non permetterà loro di superare “la sovranità e l’indipendenza” messicana.
Messico e Honduras hanno convocato una riunione dei ministri degli Esteri latinoamericani, il 17 gennaio a Città del Messico, per discutere la possibilità di raggiungere una posizione unitaria dell’America latina e dei Caraibi di fronte all’arrivo di Trump alla presidenza. La riunione ha riaffermato che tutti i migranti, indipendentemente dal loro status, hanno diritti fondamentali e inalienabili, e che gli Stati sono obbligati a rispettarli, proteggerli e cercare di adottare misure per il loro pieno rispetto. Riaffermando, quindi, di voler respingere la loro criminalizzazione in tutte le fasi del ciclo migratorio, proteggendoli in via prioritaria dalla criminalità organizzata transnazionale che trae profitto dalle migrazioni. I Paesi firmatari – Brasile, Belize, Colombia, Cuba, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Messico e Venezuela –, luoghi di origine di migranti, si impegnano inoltre a “difendere i diritti umani di tutti i migranti”.
Alla domanda di una giornalista brasiliana sulla sua visione delle relazioni con il Brasile e l’America latina nel suo secondo mandato, il neopresidente è stato categorico: “Hanno bisogno di noi, noi non abbiamo bisogno di loro. Tutti hanno bisogno di noi”. Anche se poi ha precisato che si aspetta che le relazioni bilaterali con il Brasile siano “eccellenti”. Il colombiano Gustavo Petro ha definito “pericoloso” l’isolazionismo proposto da Trump, e ha osservato che “chi si indebolisce è chi rimane solo (…); direi che l’annuncio che siamo soli e non ci interessa l’America latina, ecc., è un annuncio pericoloso, non solo per il mondo, ma per la stessa società americana”.
Tuttavia, nonostante il suo desiderio di isolazionismo, Trump è stato costretto a mettere l’America latina al centro delle sue prime decisioni, con ciò fornendo un’anticipazione di quelli che, senza alcun dubbio, si annunciano come quattro anni estremamente complicati per gran parte dei Paesi della regione, che saranno costretti a zigzagare tra la via diplomatica e il confronto con la Casa Bianca.