Strage a Jenin, strade bloccate e spostamenti impossibili per i palestinesi nella Cisgiordania occupata, arresti di massa, minacce ai prigionieri nei centri di detenzione, squadracce di coloni incappucciati che danno alle fiamme negozi e attaccano gli abitanti. È solo l’inizio dell’operazione israeliana denominata “Muro di ferro”, che si è abbattuta, martedì 21 gennaio, sulla West Bank. Non esclusivamente Jenin e non solo attacchi militari, questa volta si tratta di qualcosa di diverso. Lo hanno percepito subito gli abitanti del campo profughi palestinese nel nord della Cisgiordania occupata. “È cominciato all’improvviso” – ha raccontato il governatore Kamal Abu al-Rub –, “prima gli elicotteri Apache e poi mezzi militari ovunque”.
I filmati delle telecamere di sorveglianza mostrano colpi di arma da fuoco sulle persone che camminano per strada. Un uomo è stato raggiunto alle spalle mentre tentava di allontanarsi, disarmato. Un anziano ha continuano a camminare, curvo, tra i proiettili che cadevano ai suoi piedi. Le vittime sono almeno dieci, in gran parte civili. I mezzi militari hanno impedito agli operatori della Mezzaluna rossa palestinese di soccorrere i feriti, bloccando loro la strada, fermando e perquisendo i paramedici. Come sempre accade, durante i raid israeliani, le ruspe hanno distrutto le strade e ostruito con massi e calcinacci l’ingresso dell’ospedale governativo. Diversi feriti, di cui uno in modo grave, anche tra le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Lo scorso sabato, gli uomini di Abu Mazen avevano raggiunto un accordo con i combattenti della Brigata Jenin, affiliata al Jihad Islami, per porre fine agli scontri cominciati all’inizio di dicembre. Con l’operazione denominata “Proteggere la Patria”, le forze di sicurezza dell’Anp hanno però lanciato un attacco al campo profughi, che ha causato almeno quindici morti, tra cui la giovanissima reporter palestinese Shatha al-Sabbagh, colpita mentre si trovava in strada con sua madre e i nipotini.
Quando la tregua stava per essere annunciata, all’inizio della scorsa settimana, nel giro di poche ore, Israele ha attaccato due volte Jenin, uccidendo diverse persone, tra cui un ragazzino di 15 anni e tre fratelli. Il ministro israeliano della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato che l’operazione militare in corso a Jenin segnerà un cambiamento nella “dottrina della sicurezza” dell’esercito in Cisgiordania. Il Canale 12 israeliano, citandolo, ha specificato che la “sicurezza”, come la intende Katz, è quella dei coloni. In effetti, il giorno dopo la liberazione dei prigionieri politici palestinesi, l’esercito di Tel Aviv ha bloccato strade e chiuso checkpoint, facendo piombare la Cisgiordania in una morsa di caos e traffico, che garantiva il regolare spostamento dei soli coloni, presenti nella Palestina occupata in violazione del diritto internazionale. E i segnali di un rafforzamento del potere e dell’immunità dei coloni sono ormai tantissimi. Provengono non solo da dentro i confini nazionali ma anche da oltre oceano. Il neopresidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tra i primi atti del suo mandato, ha infatti deciso di cancellare le già blande ed esclusivamente simboliche sanzioni nei confronti degli israeliani insediatisi in Cisgiordania. È ciò che Netanyahu aveva promesso all’estrema destra, affinché ingoiasse l’amaro boccone (per i suoi alleati e per se stesso) della tregua con Hamas, ottenuta mediante l’intervento proprio di Trump. Quest’ultimo, però, dopo l’insediamento, sta già mollando la presa sul premier israeliano, dichiarando quello che, dall’inizio, a moltissimi sembrava lampante: la tregua non durerà, la guerra a Gaza riprenderà, e gli Stati Uniti sosterranno Israele. Fino a quando, questo non è chiaro, dato che anche i media israeliani, solitamente fedeli al premier, hanno dovuto ammettere, con sorpresa e sgomento, che Hamas a Gaza è ancora forte, e che, dopo quindici mesi di violentissimi attacchi d’aria e di terra, l’organizzazione è riuscita a mantenere il controllo sulla Striscia.
I raid e la punizione collettiva operati in Cisgiordania sono utili più che mai al governo di Tel Aviv, non solo per tenere buoni i leader dei coloni e gli alleati dell’estrema destra, ma anche per spostare l’attenzione da ciò che sta accadendo all’interno. Potrebbe essere cominciata, infatti, la tanto attesa e finora rimandata resa dei conti sulle responsabilità del fallimento dei servizi segreti e di sicurezza nel prevenire ed evitare l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Il capo di stato maggiore, Herz Halevi, ha rassegnato le dimissioni (che saranno effettive il 6 marzo) per non essere riuscito a scongiurare l’attacco e i rapimenti portati a termine dal gruppo islamista. Non sono bastate le sue ultime dichiarazioni, in cui annunciava di stare preparando l’esercito alla ripresa della guerra a Gaza, in Libano, e agli attacchi in Cisgiordania. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ne aveva chiesto comunque la testa. E il potere di Smotrich è considerevolmente aumentato dopo l’accordo per il cessate il fuoco e le conseguenti dimissioni dell’altro ministro suprematista, Ben Gvir.
A differenza del collega, Smotrich è rimasto nel governo, chiedendo un prezzo alto a Netanyahu. Non solo la ripresa della guerra a Gaza, ma un programma di occupazione permanente della Striscia. Inoltre la protezione dei coloni in Cisgiordania, che devono potersi muovere e moltiplicare in tutta libertà. Probabilmente, anche le dimissioni di Halevi e l’ultima parola sul nome di chi lo sostituirà: qualcuno che sia in grado di capire che “la vera missione è occupare l’intera Gaza”, ha dichiarato. Nel saluto di commiato, il capo di stato maggiore non ha parlato della commissione d’inchiesta indipendente che dovrebbe indagare sulle responsabilità interne per i fatti del 7 ottobre. La chiedono in tanti, in Israele. Le famiglie delle vittime di Hamas, gli alleati governativi più estremisti, e anche l’opposizione, il cui leader, Yair Lapid, ha festeggiato per le dimissioni di Halevi, dichiarando che Netanyahu e il suo governo dovrebbero seguirne l’esempio.