Alla fine, Edmundo González Urrutia, esule in Spagna, non è riuscito a mantenere la sua promessa di fare ritorno a Caracas venerdì scorso, dove avrebbe voluto presentarsi per reclamare l’investitura di presidente eletto del Venezuela, al posto di Nicolás Maduro. E María Corina Machado, vera leader della destra venezuelana unita, lasciata la clandestinità in cui vive da mesi, non ha potuto mobilitare a sufficienza una popolazione ormai fiaccata dalla repressione messa in atto dal regime dopo il 28 luglio scorso. Il cui operato, fino al giorno precedente il giuramento presidenziale, stando al rapporto dell’organizzazione non governativa Foro Penal, ha portato in carcere 1.697 persone per motivi politici, cifra mai raggiunta prima in questo secolo.
Su questa scia, per evitare ogni spiacevole incidente, quella che Maduro chiama la unión cívico-militar-policial perfecta che governa il Venezuela ha deciso di chiudere unilateralmente le frontiere con i Paesi vicini, ha bloccato lo spazio aereo, inondato di forze dell’ordine e di uomini incappucciati a bordo di motociclette le piazze cittadine, e chiamato i propri sostenitori a manifestare negli stessi luoghi in cui si era data appuntamento l’opposizione. Con queste premesse, non poteva che evaporare il sogno di una ribellione in continua espansione, mentre è venuta a fallire la strategia della destra di seguire l’esempio delle “rivoluzioni colorate” verificatesi in alcuni Stati ex sovietici. L’appello rivolto da entrambi i leader dell’opposizione alle forze armate bolivariane, chiamate a difendere la Costituzione per sventare quello che ai loro occhi ha assunto i contorni di un vero e proprio colpo di Stato, è caduto nel vuoto.
Alla luce di quanto è successo, appare chiaro come le proteste successive alle elezioni del 28 luglio non siano state sufficienti a costringere i militari a rompere il patto su cui poggia il Paese. E ciò principalmente per due motivi. Perché sono state meno forti di quelle del 2014 e del 2017, e perché i sette milioni e mezzo di persone che, in questi anni, hanno lasciato il Venezuela, per la crisi politica ed economica, hanno probabilmente prosciugato i serbatoi della protesta adisposizione dell’opposizione.
“Ho chiesto a Edmundo di non venire, la sua integrità è in pericolo. Maduro ha consolidato il colpo di Stato e la violazione della Costituzione. È ora di fare tutto il necessario per riconfermarla”, ha detto Machado, che ora ha abbracciato la via democratica, ma che in passato ha invocato anche il golpe e l’intervento militare esterno pur di abbattere il regime. “Maduro ha attraversato la linea rossa. Non si è messo la fascia sul petto, ma una catena”, ha concluso. Le ha fatto eco Edmundo González: “Sono pronto per il ritorno sicuro al momento giusto, farò valere i voti che rappresentano il recupero della nostra democrazia”.
Nonostante ciò, Nicolás Maduro ha prestato giuramento senza intoppi come presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela davanti a una copia della Costituzione firmata da Hugo Chávez, e rimarrà in carica, salvo sorprese, per i prossimi sei anni. Lo ha fatto a costo di mettere specularmente a nudo la sua debolezza, per l’appoggio popolare che gli è venuto a mancare, imprimendo un’accelerazione al carattere autoritario del suo governo, potendo contare sulla lealtà della Forza armata nazionale bolivariana, da lui trasformata in un tutt’uno con l’esecutivo. I circa duemila generali su cui il Venezuela può contare – un numero più ampio della somma di generali dei Paesi della Nato – difficilmente avrebbero potuto rinunciare al controllo di buona parte delle leve economiche principali del Paese che attualmente detengono. Queste vanno dall’energia all’estrazione mineraria, ai porti, al trasporto aereo delle merci, alla fornitura di cibo, alla stessa metropolitana di Caracas, essendo il ministero della Difesa proprietario di un centinaio di aziende. “Il solo fatto che siamo qui e che ci sia pace nelle strade è la prova che stiamo trionfando”, ha detto Maduro, che si presenta come erede della rivoluzione voluta da Chávez, “il comandante immortale”, erede, a sua volta, di Simón Bolívar.
“Anche se tutti sappiamo che il Paese non finisce con il 10 gennaio, allo stesso tempo c’è la certezza che il tempo della democrazia sta finendo”, ha scritto la giornalista Luz Mely Reyes. Perché il progetto politico chavista perseguiva un processo di cambiamento radicale della società, ma pur sempre basato sull’ottenimento della maggioranza del voto popolare. Un voto che è andato disgregandosi nel tempo. Prima, nel 2015, quando l’opposizione ha ottenuto la maggioranza all’Assemblea nazionale. Poi con le elezioni regionali del 2017 – nello stato di Bolívar – e nel 2021 nello stato di Barinas, che hanno costretto il governo a ricorrere alle frodi. Fino al salto di qualità del 28 luglio, dove una opposizione, prima litigiosa e divisa, nell’impossibilità di votare Machado, è riuscita a far confluire il 67% del voto su un ex diplomatico sconosciuto, secondo quanto è stato verificato da organismi internazionali. Mentre il regime, pur pressato da più parti, ha riconosciuto implicitamente la sua sconfitta non pubblicando i dati delle elezioni, come la legge prevede, e come in passato aveva fatto quando era ancora premiato dal voto popolare. E avendo organizzato – come si ritiene da più parti – la frode su larga scala.
Alla cerimonia del giuramento erano presenti il nicaraguense Daniel Ortega, il cubano Miguel Díaz-Canel, i primi ministri di Antigua e Barbuda e della Repubblica araba saharawi democratica. Questi i personaggi più alti in carica. C’erano inoltre il russo Viacheslav Volodin, capo della Duma, e Wang Dong Ming, in rappresentanza del parlamento cinese. Si è fatto vedere Manuel Zelaya, ex capo dello Stato e marito di Xiomara Castro, attuale presidente dell’Honduras. Brillavano per la loro assenza i leader di Argentina, Brasile, Colombia, Cile, Perù, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Panama, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Repubblica dominicana, Bolivia e Messico. Nonostante le duemila presenze, di cui parla il comunicato ufficiale, la foto del giuramento ritrae un Paese abbastanza isolato. Anche da quei Paesi latinoamericani che attualmente sono governati dalla sinistra. Il Brasile ha comunicato al regime venezuelano la sua “grande preoccupazione” per le “denunce di violazioni dei diritti umani degli oppositori”, mentre Lula e Macron hanno chiesto a Maduro di “riprendere il dialogo con l’opposizione”.
Il colombiano Gustavo Petro ha detto che il governo venezuelano ha negato alla leader dell’opposizione, María Corina Machado, il diritto di scegliere ed essere eletta, e ha denunciato l’arresto del suo amico Enrique Márquez, candidato alle presidenziali appoggiato anche dal Partito comunista, e di Carlos Correa, un importante difensore dei diritti umani: “Questo, e altri fatti, impedisce la mia partecipazione personale all’atto di insediamento di Nicolás Maduro”, ha spiegato Petro, che ha aggiunto: “Non possiamo riconoscere le elezioni che non sono state libere e speriamo che possano svolgersi presto senza blocchi o intimidazioni interne. (…) Chiediamo la libertà di tutte le persone detenute per motivi politici”.
Più esplicito di tutti il cileno Gabriel Boric, che ha detto: “Sono una persona di sinistra, e dalla sinistra dico che il governo di Nicolás Maduro è una dittatura”. Mentre in Venezuela raggruppamenti della sinistra giudicano arrivato il momento di organizzare la resistenza, dato che i dissidenti, una volta sostenitori di Chávez e oggi non di Maduro, sono perseguitati. Ma se Maduro rimane isolato nei confronti delle nazioni cosiddette democratiche, e ha visto aumentare la taglia che gli Usa hanno messo per la sua cattura da 15 a 25 milioni di dollari, mantiene le relazioni commerciali con la Cina, che sta investendo in infrastrutture; e con la Russia che gli garantisce armi e supporto per l’estrazione del petrolio; nonché con Paesi come l’Iran, l’India, la Turchia, con cui ha intrecciato legami in campo economico utili a bypassare le sanzioni.
Nel 2020, il governo ha avviato alcune riforme sulla via dell’economia di mercato, unitamente a una dollarizzazione di fatto che ha portato a un balzo del Pil del 12% nel 2022, del 5% nel 2023 e del 9% nel 2024. Ciò, per il regime, ha comportato l’allontanamento dal cosiddetto Plan de la Patria, una serie di programmi di governo e leggi presentati inizialmente da Chávez e successivamente da Maduro, una sorta di piano sessennale, che si basa sull’ideologia del padre fondatore della rivoluzione.
In seguito a ciò, l’iperinflazione, che nel 2019 aveva raggiunto la cifra vertiginosa del 9500%, avendo un impatto devastante su milioni di persone, quest’anno si ferma all’85%. Le entrate nazionali, che dipendono essenzialmente dall’estrazione del greggio, avevano raggiunto la zona di allerta rossa già nell’ultimo decennio: da quasi tre milioni di barili al giorno, il Paese è precipitato ai trecentomila barili nel 2019. Oggi, tra molte difficoltà, la produzione si avvicina al milione. Nell’ultimo rapporto dell’Academia nacional de ciencias económicas (Ance), pubblicato a novembre, l’economia cresce, ma in modo non uniforme, mentre la mancanza di trasparenza nella presentazione dei risultati delle elezioni solleva un’incertezza che potrà avere un impatto sul peggioramento dell’inflazione. E, senza il rispetto della volontà popolare, difficilmente si potrà accedere al finanziamento esterno per la riattivazione economica e l’attenzione ai problemi sociali. Secondo le sue stime, la povertà è raddoppiata, raggiungendo l’80% della popolazione, mentre il salario minimo mensile, che tradizionalmente si aggirava intorno ai quattrocento dollari, è ora di tre, in qualche misura compensati da diversi bonus che il governo concede ogni quattro settimane, che lo porta a centocinquanta dollari al mese.
Donald Trump, che pur aveva appoggiato a suo tempo Juan Guaidó, non ha ricevuto Edmundo González quando questi ha fatto tappa, nei giorni scorsi, negli Stati Uniti. Lo ha ricevuto Biden. E la politica del prossimo presidente americano nei confronti del Venezuela potrebbe essere persino una sorpresa. Perché, oltre a scontare una certa delusione per aver appoggiato Guaidó, ora Trump potrebbe avere interesse ad arrivare a una qualche forma di intesa con Maduro, al fine di fargli riprendere una quota di migranti venezuelani per tener fede alla sua promessa di deportazione di massa. Tenuto anche conto che così farebbe contenti i suoi amici petrolieri, che vedono di buon occhio un incremento delle importazioni del greggio. La posizione del nuovo segretario di Stato, Marco Rubio, favorevole alle maniere forti con tutti i Paesi che odorano di comunismo, potrebbe così persino essere messa in secondo piano a favore di un approccio meno ideologico. In attesa che il Trump 2.0 faccia conoscere quale sarà la scelta statunitense sul Venezuela, gli ex presidenti colombiani, Álvaro Uribe e Iván Duque, gli hanno fatto sapere le loro preferenze, ventilando la possibilità di un intervento nel Paese caraibico, scommettendo sulla via insurrezionale e sull’intervento esterno. Musica per le orecchie di Maduro, che subito ha fatto appello alla solidarietà antimperialista internazionale e ha dichiarato, nel corso di una trasmissione dal canale statale Vtv, che “il Venezuela si sta preparando insieme a Cuba, insieme al Nicaragua, insieme ai nostri fratelli maggiori del mondo, se un giorno dovessimo prendere le armi per difendere il diritto alla pace, il diritto alla sovranità e i diritti storici della nostra patria”.