Che le zone rosse fossero venute per restare, fu subito chiaro ai malcapitati protagonisti delle manifestazioni anti-G8 del 2001. Parve strano, allora, che una città europea potesse essere materialmente blindata; credemmo che non fosse possibile isolare Genova in zone ermeticamente chiuse e non comunicanti, imporle una camicia di forza – ma ci sbagliavamo, e quei giorni drammatici ce lo mostrarono con asprezza. Così cancelli, grate, no-go areas, da apparati di disciplinamento – tipici di città del Sud del mondo, rigidamente divise in città dei ricchi e città dei poveri – fecero la loro comparsa anche da noi, senza destare più di tanto indignazione o critiche, e soprattutto osservazioni riguardo alla loro legittimità.
Ciclicamente le abbiamo viste tornare negli ultimi anni, già prima della pandemia, come un dispositivo “normale” di controllo e di gestione della città neoliberale, caratterizzata da provvedimenti e interventi mirati a rimuovere i segni più superficiali del crimine e del disordine. Ricordiamo la stagione delle “ordinanze” dei sindaci, in genere concepite per allontanare migranti e senza fissa dimora dalle zone ritenute turisticamente importanti; ricordiamo il “decreto Minniti” che ha introdotto il Daspo urbano per le presenze ritenute “fuori luogo” in determinati ambiti delle città, e le retoriche circa il decoro e il degrado, con cui termini usati per l’architettura e l’urbanistica sono stati per la prima volta utilizzati per stigmatizzare esseri umani.
Se ne sono serviti, e se ne servono, politici e amministratori che parlano un linguaggio curiosamente antimoderno, che rinvia all’Ottocento, mentre disegnano un quadro criminogeno che etichetta e discrimina intere popolazioni e zone della città. Non manca mai chi annuncia, trionfalmente, di stare operando una “stretta sulle periferie”. Si scatena una retorica sicuritaria in cui rimangono invisibili le cause strutturali della miseria e della vulnerabilità, vengono ignorate le modalità della sua continua riproduzione, dal “lavoro povero” alla crisi della scuola.
Ma non è solo un espediente di governance dall’alto di città sempre meno governabili, quello che si agita e prende forma sotto i nostri occhi: basta scorrere i social per rendersi conto di come queste misure siano anche invocate dalla base, non sono solo frutto di una politica reazionaria. La paura vi compare, infatti, sia come inquietudine soggettiva, derivante dalla rottura di un ordine simbolico e materiale consolidato – consapevolezza individuale di un mutamento in peggio delle condizioni di vita – sia come percezione collettiva generalizzata di una minaccia. Sentimento collettivo che diviene fondamento oggettivo di una svolta politica in direzione di una normazione, di un disciplinamento forzato della città.
Circolarmente, l’amplificazione dei poteri di sorveglianza e repressione diviene potente fattore di modificazione, di diversa produzione e organizzazione materiale della città stessa e della sua dimensione sociale. Detto altrimenti: vi è una funzione eminentemente negativa svolta dal potere, che si intreccia con una sua funzione invece affermativa, creativa. L’insicurezza è creatrice, non solo di apparati disciplinari, di gabbie, di frontiere, ma anche di relazioni sociali, di diverse modalità d’interazione, di adattamento e modellamento dei corpi. La paura trasforma la città. Facile capire come sia la Milano delle crescenti divisioni e disuguaglianze il laboratorio in cui vengono introdotte queste misure. Rare le voci di dissenso: se la costituzionalista Marilisa D’Amico parla delle zone rosse come di “spie di una deriva autoritaria”, e a sinistra qualche voce ancora si alza, basta la vicenda del capodanno milanese a eccitare la richiesta di provvedimenti ancora più severi, ancora più stringenti: identificazioni, detenzioni preventive, pattugliamenti polizieschi e militari.
La paura urbana dei moderni non comporta unicamente lo slittamento dei regimi democratici verso un perenne stato di eccezione che utilizza prassi poliziesche innovative; implica anche un mutamento delle mentalità, della maniera di concepire la città. Qui risiede il limite delle teorie che vedono nell’insicurezza una mera costruzione sociale, o di quelle, ancora più radicali, che la considerano il risultato di un grande complotto, di una congiura messa deliberatamente in atto dalle agenzie della sicurezza.
Il problema non è solo Piantedosi, figura tutto sommato di scarso rilievo. Esistono anche altri concreti fattori: è importante ricordare che l’amministrazione delle città è stata, negli ultimi decenni, profondamente modificata dall’approccio imprenditoriale, che ha coinvolto nuovi attori nel quadro di una più ampia compartecipazione pubblico-privato. In molte città le amministrazioni, e una parte degli attori sociali, collocano ormai la soluzione del problema del crimine e in generale dell’insicurezza nel contesto del marketing complessivo del luogo, dell’immagine della città da vendere e della competitività di città e regioni, come ha ben mostrato, proprio nei suoi scritti su Milano, Lucia Tozzi (vedi qui).
Qui probabilmente è da ricercare una delle ragioni per cui questi specifici e in parte nuovi discorsi sulla prevenzione sono collegati a uno slittamento nelle pratiche a livello di strada, con cui la sicurezza è prodotta nei centri urbani, generando provvedimenti come i decreti, che introducono il Daspo urbano. E sotto questo profilo è curioso notare come le ordinanze anti-bivacco dei giorni nostri e la stessa ondata “pulizionista”, che interessa i centri, non siano un epifenomeno della società contemporanea, ma si inseriscano in una tradizione che come si è visto viene da lontano. Il controllo dello spazio pubblico diviene, in questa prospettiva, l’elemento fondamentale di una governance locale degli elementi di disturbo, che non ha funzioni unicamente politiche, ma anche economiche. Una governance che finisce, in ogni caso, per fare appello alla necessità della compattezza e della coesione, che vorrebbe vedere il diffondersi della partecipazione proprio nell’epoca della divisione e della frammentazione urbana. Si tratta dunque del tentativo di instaurare un ordine sovrimposto, che si serve di una gestione autoritaria del territorio locale, mirata al contenimento dei superflui mediante un dispositivo che racchiudendo esclude, che mette ai margini gli inutili, i vagabondi, i poveri, ma che al tempo stesso, e contraddittoriamente, postula implicitamente una rifondazione della socialità urbana, insistendo retoricamente sugli aspetti di coesione, di unità, di comunità. Quella che comincia così a delinearsi è un’epoca inquietante, piena di incognite, in cui, al di là delle mere strategie di marketing urbano e di maquillage sociale delle zone turistiche, la costruzione di una diversa stagione della sicurezza appare un obbligo cui le città non possono sottrarsi nelle attuali condizioni di accesa competizione e di crescita di una disuguaglianza che ha sempre meno giustificazioni valide da addurre. Contro questi processi andrebbe articolata, da sinistra, una protesta forte e chiara.