Sei anni di reclusione e un milione di euro di risarcimenti per il caso dei migranti costretti, nell’agosto del 2019, a rimanere per giorni a bordo della nave Open Arms: questa la richiesta della pubblica accusa del processo di Palermo contro il segretario della Lega, Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno. La sentenza (di primo grado) è attesa nelle prossime ore; l’interessato ha già fatto sapere che, in caso di condanna, non intende dimettersi dai suoi incarichi politici e di governo, e ha rivendicato di aver “difeso la patria”. A suo dire “una condanna anche di un mese sarebbe una condanna per l’Italia”. Ma il Salvini di oggi è forse il più debole dell’ultimo decennio. I suoi guai giudiziari e le ricorrenti tensioni con gli alleati sono solo una parte delle preoccupazioni che deve affrontare: in questo momento, il fronte più delicato è quello interno, della Lega che ha voglia di tornare nordista e lo assedia chiedendo una svolta politica, se non proprio un ritorno al passato. Può sembrare paradossale, ma una condanna, e su un tema così cruciale per la Lega, potrebbe rafforzare la leadership di Salvini: anche i suoi critici interni non potrebbero evitare di tributargli il massimo della solidarietà.
Facciamo un passo indietro: “Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno la voglia, di darmi pieni poteri, per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo, senza rallentamenti e senza palle al piede”. Siamo proprio nel fatidico mese di agosto del 2019, è l’estate di Open Arms, ma anche quella della cosiddetta “crisi del Papeete”; Matteo Salvini annuncia così alle telecamere la sua intenzione di presentarsi alle elezioni politiche come “candidato premier”, dopo la rottura del patto di coalizione con il Movimento 5 Stelle. Sono parole di cinque anni fa, ma sembrano remote quanto un discorso parlamentare di Giovanni Malagodi o di Mario Tanassi. Per completare questa sorta di viaggio nel tempo, è il caso di ricordare che la “supermedia dei sondaggi politici”, realizzata da Youtrend-Agi il 1° agosto del 2019, attribuiva alla Lega salviniana un formidabile 36,8% delle intenzioni di voto.
Com’è noto le elezioni non ci furono, nacque il governo Conte 2, poi quello guidato da Mario Draghi, e quando si arrivò a consultare gli elettori, nel settembre 2022, la Lega era scesa, nei voti reali stavolta, sotto il 9% a livello nazionale. Era ormai tramontata la stella del “capitano” (in pochi ormai ricordano anche questo titolo, un filo pretenzioso, che la comunicazione leghista aveva adottato negli anni dei maggiori successi di Salvini). La sconfitta fu attutita solo dalla vittoria della coalizione di destra-centro, dalla doppia poltrona di vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture e Trasporti, e dalla promessa ai leghisti storici del lombardo-veneto della grande riforma dell’autonomia regionale differenziata; legge recentemente azzoppata dalle pesanti censure della Corte costituzionale (ne abbiamo parlato qui) e minacciata anche dal referendum abrogativo che ne decreterebbe la fine.
Accelerando il nastro fino al presente, il percorso del segretario della Lega si fa di giorno in giorno più accidentato. L’esito del congresso della Lega lombarda lo ha visto quanto meno ridimensionato, se non addirittura sconfitto: costretto a ritirare il suo candidato Luca Toccalini, e a difendere pubblicamente la sua “Lega nazionale” (che lo aveva portato in cima ai sondaggi nel 2019) contro le sempre più numerose voci che gli chiedono di tornare a “parlare del Nord”. A cominciare dal trionfatore del congresso lombardo, il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo: “Alle persone – spiega a “Repubblica” – non interessa molto di Trump o Orbán se poi non risolviamo i loro problemi”. Formalmente, nessuna contrapposizione, solo critiche politiche: la leadership, concede magnanimo Romeo, “penso che non sarà assolutamente in discussione”. Attenzione, però: Salvini prepara un congresso “federale”, cioè di tutta la Lega, ma “programmatico”, quindi senza conta sugli organismi dirigenti; Romeo invece gli ricorda che “ai congressi si vota: così come ero candidato unico io e sono stato votato per acclamazione, penso succederà la stessa cosa con Matteo Salvini”.
Tutt’altro che indolore anche il botta e risposta a distanza con il presidente della Lombardia, Attilio Fontana. Al leader che raccomanda di “non litigare nel nostro accampamento”, il “governatore” lombardo fa notare di vedere, eccome, dei nemici interni, per esempio “quando vedo certi emendamenti firmati dai nostri parlamentari di zone diverse dalle nostre che vanno tutti a danno della Lombardia”. Se non è una invettiva d’altri tempi contro i teròni, poco ci manca, e per la “Lega nazionale”, dalla quale, secondo Salvini, “non si torna indietro”, non sembra proprio un bel segnale. Certo, per il momento non c’è una vera e propria fronda: Giancarlo Giorgetti, potente ministro dell’Economia alle prese con le forbici della manovra, non si espone troppo; secondo lui, i leghisti sono “soldati” che hanno bisogno di un capo. Fontana e Romeo non sembrano avere il carisma per immaginarsi al posto di Salvini, nemmeno nel medio periodo. Solo Luca Zaia, il presidente del Veneto che non ha ancora dismesso la speranza di potersi ricandidare per un ulteriore mandato (la legge non lo permette, e finora Giorgia Meloni non ha acconsentito a ipotesi di modifica), avrebbe le energie e la credibilità per sfidarlo a viso aperto. Ma deve passare ancora altra acqua sotto i ponti, perché le sfide sono affascinanti, ma se l’avversario potenziale, Salvini in questo caso, si indebolisce ulteriormente, la partita diventa più allettante. Tempo al tempo. E parola ai giudici di Palermo.