François Bayrou ha dovuto faticare per essere nominato primo ministro, imponendosi a Macron che gli avrebbe preferito una figura a lui più vicina. Ha minacciato perfino di rompere del tutto i rapporti, facendo precipitare il presidente ancor più nella crisi (le sue possibili dimissioni potrebbero diventare concrete se vi fosse spinto da una parte del proprio campo), e spezzando un’alleanza che dura dal 2017, cioè da quando il giovane transfuga dal Partito socialista decise di presentarsi alle presidenziali su posizioni centriste, le stesse sostenute da tempo proprio da Bayrou, che al massimo però si era piazzato terzo nei suoi tentativi di raggiungere l’Eliseo.
Ma dove ha fallito il destro Barnier avrà più successo il centrista Bayrou? Niente di meno sicuro. È vero che i socialisti, pur restando all’opposizione, hanno annunciato l’intenzione di non votare la sfiducia (o “censura”, come si dice in Francia) in cambio dell’impegno, da parte del primo ministro, a non utilizzare quell’articolo della Costituzione gollista che consente al governo di far passare un provvedimento senza un voto in parlamento. Ma ciò significa per Bayrou dovere trovare di volta in volta una maggioranza, su questo o quell’argomento, che comprenda un arco di forze che va dalla destra moderata ai socialisti, e magari fino agli ecologisti, riuscendo in questo modo a spaccare un cartello delle sinistre che, fin qui, ha tenuto anche al di là delle previsioni. Non sarà facile su una varietà di soggetti – dalla questione della legge sulle pensioni alla manovra complessiva, che dovrebbe allontanare la Francia dal baratro finanziario – costruire delle maggioranze parlamentari.
Eppure, sarebbe stato tutto più semplice se Macron – che gioca due parti in commedia, presidente super partes e capo di un proprio schieramento parlamentare (grave difetto, questo, insito nello stesso sistema politico francese) – si fosse rassegnato a trovare un compromesso con il blocco arrivato in testa alle ultime elezioni legislative, quello del Nuovo fronte popolare. Questa ipotesi, pur avendo Macron da subito escluso una coalizione che arrivasse fino alla France insoumise di Mélenchon, aveva tuttavia una subordinata: che ci si mettesse attorno a un tavolo per formare un governo di esponenti del campo centrista, con all’interno un po’ di personalità provenienti dalla sinistra, ma con un programma contrattato per durare almeno fino all’estate prossima, quando sarà possibile ritornare alle urne. In questo modo sarebbe stato complicato finanche per Mélenchon rompere con il resto del suo campo – se il compromesso avesse incluso alcuni punti qualificanti del programma sottoscritto insieme dalle forze di sinistra. Dopo avere dato un incarico a Barnier, aperto all’estrema destra, Macron, anche solo in base al noto principio centrista “dei due forni”, avrebbe potuto insomma volgersi a sinistra.
Invece ha preferito gettare tutta la responsabilità sui socialisti, i quali ora dovranno farsi carico della “governabilità” (volendo usare questo termine del lessico politico italiano) e insieme della tenuta dei loro rapporti a sinistra. Perché è evidente che i socialisti – sia per il modo in cui sono stati eletti i loro parlamentari, all’interno di una coalizione con un suo programma, sia per non ridursi a essere la stampella del macronismo declinante – non potranno sostenerlo, o evitare di farlo cadere, senza concessioni da parte del primo ministro.
Dunque Bayrou sarà a rischio come lo era Barnier. Con la differenza che questi era orientato a chiedere a Marine Le Pen e ai suoi la non-sfiducia, mentre il sindaco di Pau, peraltro bellissima cittadina ai piedi dei Pirenei, che si autodefinisce “umanista” (qualsiasi cosa significhi questo aggettivo vago almeno quanto quello di “progressista”), appare orientato a cercare di ottenerla in primis dai socialisti.