Gli immensi centri di detenzione in Albania sono simulacri a ricordo di un’operazione controversa, mentre i movimenti sociali albanesi e italiani organizzano la protesta. In occasione dell’anniversario degli accordi tra Meloni e il primo ministro albanese Rama, lo slogan Pa Kufi, Pa Qeli (“no ai confini, no alle prigioni”) è rimbalzato tra la capitale, l’hotspot di Shengjin e il Cpr di Gjader per due giorni interi. La contestazione pacifica voleva sottolineare il distacco tra la popolazione e le politiche sovraniste dell’Italia, che intenderebbero sperimentare i centri in Albania come pratiche di una marginalizzazione della questione migratoria. Definito il “Ruanda sull’Adriatico”, per la sua vicinanza con il progetto altrettanto disastroso del Regno Unito nel Paese africano, l’accordo Italia-Albania è però fallito su tutta la linea.
Già prima del suo avvio, “terzogiornale” ne aveva parlato (vedi qui e qui): il costo stimato era di 635 milioni di euro, includendo spese di costruzione, personale e spostamenti. A oggi, il centro di Shengjin è costato circa tre milioni di euro, mentre per il sito di Gjader, ex base militare albanese in stato di degrado, l’Italia ha stanziato venti milioni di euro solo nel 2024. I costi pagati dai contribuenti italiani sono stati elevati, i risultati nulli. Perché non ci si indigna? I motivi sono esclusivamente ideologici. Lo dimostrano le recenti polemiche del capogruppo emiliano della Lega, Alessandro Rinaldi, rispetto al fondo di un milione di euro previsto per favorire la scolarizzazione di bambini e adolescenti rom, sinti e caminanti. Gridando allo “spreco di denaro pubblico” – nonostante il progetto risalisse al 2013 e fosse stato più volte confermato, anche dal governo Meloni – Rinaldi ha denunciato la “discriminazione nei confronti dei bambini italiani”.
Per svelare l’incongruenza delle destre, basta confrontare queste cifre con quelle spese per l’integrazione. È solo un esempio di quanto una parte della rappresentanza politica sia scollegata da un pensiero riguardo alle tematiche di integrazione, anche dal punto di vista puramente economico. Spendere centinaia di volte la stessa cifra per costruire dei centri di detenzione all’estero, sapendo che violeranno le leggi internazionali, è avallato come investimento positivo; mentre sostenere l’educazione di bambini e adolescenti rom, che vivono in Italia da sempre, non è concepibile.
Il nostro Paese perde il contatto con la realtà operativa di altri Paesi, come la Spagna, che fanno passi avanti. Il governo di Pedro Sánchez ha infatti recentemente semplificato le procedure per il rilascio di permessi a circa trecentomila migranti all’anno. La riforma semplifica le procedure legali e amministrative per i permessi di lavoro e di soggiorno, consentendo agli immigrati di registrarsi come lavoratori autonomi o dipendenti, e fornendo loro ulteriori garanzie sui diritti del lavoro. Inoltre, estende a un anno un visto precedentemente offerto a chi cerca lavoro per tre mesi. In vigore dal maggio 2025, il nuovo regolamento è una mossa progressista; tuttavia Elma Saiz, ministra dell’Inclusione, della Sicurezza sociale e delle Migrazioni, ha illustrato questa strategia sottolineando come l’obiettivo non sia solo quello di rafforzare i diritti umani, ma anche quello di garantire la prosperità economica. La Spagna ha bisogno di circa 250mila nuovi lavoratori ogni anno per sostenere il proprio sistema sociale, ossia per pagare le pensioni attuali e future. L’accoglienza e l’integrazione non sono altro che la risposta strategica al basso tasso di natalità, evidenziando così come i migranti siano anche un’opportunità per garantire il benessere economico.
Invece, l’Italia finanzia costosissimi centri albanesi che oggi vedono un presidio di sole 170 unità, a causa dell’inattività, a fronte di un contingente previsto di 295 agenti (con una spesa di nove milioni di euro annui). Anche gli operatori sociali di Medihospes, l’ente che gestisce queste strutture, stanno abbandonando Gjader e Shengjin per rientrare in Italia. “L’accordo con l’Albania continua a fare danni. Alle violazioni dei diritti umani di un’operazione che la giustizia ha già bollato come illegittima, si aggiunge l’enorme spreco di denaro proprio mentre il governo arranca con una manovra recessiva, che non garantisce i servizi essenziali, primo fra tutti la sanità pubblica”, ha dichiarato la segretaria del Pd, Elly Schlein.
Secondo l’accordo tra Italia e Albania, le persone soccorse dalle navi italiane in acque internazionali sarebbero state trattenute in questi centri, fino a un massimo di 39.000 l’anno. Tuttavia, i numeri reali raccontano un’altra storia: solo diciotto richiedenti asilo sono passati da Gjader nei mesi scorsi, e per un periodo brevissimo, a causa della illegittimità di tutta l’operazione. Alcuni giuristi, come Fulvio Vassallo Paleologo, avevano già evidenziato come l’accordo con l’Albania fosse in contrasto non solo con la normativa europea, ma anche con il diritto internazionale. Secondo l’articolo 53 della Convenzione di Vienna, infatti, “è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale”. I rimpatri dall’Albania verso i Paesi di origine, ritenuti “sicuri”, sono una violazione del divieto di respingimento, previsto dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra e delle convenzioni internazionali di diritto del mare, rese vincolanti per l’Italia dal regolamento europeo Frontex, numero 656 del 2014.
A inizio ottobre, la Corte di giustizia europea ha interpretato la direttiva Ue che regola la nozione di “Paese sicuro”, decretando che – per essere definito tale – un Paese deve esserlo in tutto il suo territorio, senza distinzioni. Questa norma incide sul piano di estradizione italiano, perché alcuni dei Paesi ritenuti sicuri dall’Italia, non lo sono secondo l’Unione europea. Il 4 dicembre, la Cassazione si pronuncerà sul trattenimento dei migranti in Albania, ma c’è il rischio che la questione venga rinviata alla Corte di giustizia dell’Unione europea, il che prolungherebbe ulteriormente l’incertezza giuridica sull’operazione del governo Meloni.
Tra le questioni più gravi, emerse in questa vicenda, c’è l’uso di metodi di intimidazione di stampo mafioso utilizzati contro la magistratura. Silvia Albano, giudice del tribunale di Roma che ha emesso provvedimenti contrari all’accordo con Tirana, ha ricevuto minacce di morte, e ha dovuto richiedere la sorveglianza. L’Associazione nazionale magistrati ha denunciato un centrodestra che non accetta “l’autonomia e l’indipendenza” dei magistrati e “non tollera che i giudici si esprimano senza assecondarli”. In un clima di tensione e attacchi all’indipendenza della magistratura, l’Associazione ha parlato di una “ferita” inflitta alle istituzioni democratiche. Addirittura il neopolitico statunitense, nonché uomo più ricco del mondo, Elon Musk, ha scritto su X (ex Twitter): “Questi giudici devono andarsene”. E non è neanche la prima volta che si permette di mettere bocca sull’operato della magistratura italiana. Musk, infatti, si era già espresso in precedenza, chiedendo addirittura il carcere per i pm che hanno chiesto la condanna di Salvini nel caso Open Arms.
Se l’Italia, invece di farsi banco di prova di politiche migratorie controverse, adottasse strategie mirate a formare nuove generazioni di migranti, non solo preparandoli per il mondo del lavoro, ma anche valorizzando il loro senso di appartenenza al Paese che li ha accolti, potremmo immaginare un futuro diverso. Un futuro in cui i migranti non vengano trattati come numeri anonimi, spostati come pacchi attraverso il Mediterraneo, ma come individui che arricchiscono il nostro tessuto sociale e culturale.