La vita di Ramy Elgaml, un ragazzo di 19 anni cresciuto nel quartiere milanese di Corvetto, si conclude nella notte tra il 23 e il 24 novembre. Dopo una folle gincana per le strade di Milano, che si protrae per otto chilometri, viene sbalzato dallo scooter guidato da un amico e muore. Un testimone sostiene che il motorino sia stato tamponato o almeno sfiorato da una delle macchine dei carabinieri lanciate all’inseguimento. Pare che i due non si fossero fermati a un posto di blocco. La notizia arriva subito al Corvetto, e amici e parenti si riversano in strada, chiedono “verità e giustizia per Ramy” – come scrivono sugli striscioni ancora appesi tra via dei Cinquecento e via Panigarola. “Facciamo casino perché non ci fanno vedere i video. L’hanno investito, l’hanno ammazzato, era di qui, tutti lo conoscevano”, dichiara uno dei manifestanti. Le indagini sull’incidente mortale vengono stranamente affidate all’Arma dei carabinieri, invece che alla polizia locale, come prassi vorrebbe. Seguono due notti di proteste nelle strade del quartiere, la prima di scontri diretti con le forze dell’ordine, che vanno avanti fin quasi mezzanotte, con cariche, barricate, lancio di lacrimogeni, e un arresto.
Sulla stampa nazionale e sui social si accende una misera retorica sulle banlieues di casa nostra. Il livello di competenza sull’argomento è mostrato dal fatto che alcuni storpiano il termine francese scrivendolo nelle maniere più strane, spesso senza la “e” finale.
Per una volta ha ragione Piantedosi: da noi non ci sono le banlieues, né potrebbe essere altrimenti, troppo diverse sono le vicende di quelle periferie, troppo lontana dalla nostra edilizia popolare pubblica è stata la modalità di edificazione degli Hlm francesi, troppo differente – ma non meno tormentata – la storia della casa per i migranti in Italia. La segregazione da noi ha seguito strade meno clamorose, anche se non meno crudeli, e rare sono state le occasioni di concentrazione degli immigrati in parti specifiche di città.
I “quartieri etnici” sono stati circoscritti, solo occasionalmente hanno fatto notizia, come avvenne anni fa per via Anelli a Padova, e la contestata vicenda del muro che la divideva dal resto della città. Ma c’è poco da far festa: non siamo meglio dei francesi. Se analogie ci sono tra le due realtà, quella francese e quella italiana, si danno sotto il profilo della crescente esclusione di una componente sociale che solo parzialmente ha origine migrante. Lo dice molto bene il povero padre della vittima: “Ramy non era egiziano, era italiano, è arrivato in Italia che non aveva ancora due anni”.
Nei nostri “quartieri dell’esilio” sono confinati giovani marginali il cui background migratorio è per lo più del tutto secondario. Agli scontri seguiti alla morte del ragazzo, partecipano anche giovani del quartiere della più diversa origine. Sullo sfondo, una Milano livida, terribile, ben lontana dalla “città accogliente” di cui parla, con imbarazzo, il sindaco Beppe Sala due giorni dopo, all’inaugurazione del Milano Welcome Center, il punto unico di accesso ai servizi per i migranti appena arrivati in città. Nei quartieri popolari le dinamiche di impoverimento generale, causate dai processi speculativi, conseguenza di una rapida trasformazione urbana, frammentano sempre di più il tessuto sociale, isolando, in contesti definiti “marginali”, sacche sempre più ampie di popolazione deprivata di tutto. Non sono i remoti sobborghi parigini, a volte sono realtà urbane ancora relativamente centrali, che diventano però “zone”, spazi di concentrazione di povertà, in cui risiedono figure considerate socialmente inutili; sono periferie sociali, dove si vivono esistenze stentate e difficili, a poca distanza del centro città, vetrina in cui il reddito medio è di 120.000 euro all’anno. Vere e proprie “isole” urbane se non ghetti, in cui poco può fare il “welfare di comunità”. Nel frattempo, incalza quella “rigenerazione urbana” alla milanese di cui abbiamo parlato (vedi qui), che spinge molti degli abitanti a più basso reddito ad andarsene. Il quartiere Corvetto fu oggetto, già sotto la giunta Pisapia, di una stagione di sgomberi abitativi in vista di Expo 2015, anticipando così quella che oggi viene definita “riqualificazione” dei quartieri.
A somiglianza di altre aree “periferiche”, Corvetto è stata lasciata a se stessa: molti edifici necessitano di ristrutturazione, le strade sono prive di manutenzione e male illuminate. Sono quartieri che, quando non sono al centro di politiche discutibili, definite “di ripristino” o di “integrazione”, rimangono abbandonati ai loro problemi, o finiscono al centro di una macchina speculativa che fa aumentare i costi della vita a dismisura, espellendo di fatto gli abitanti.
Da tempo, per gestire il malessere in queste “zone”, si inaspriscono i controlli, spesso mirati a chi non abbia il fenotipo da italiano medio, secondo le modalità di quel “razzismo di Stato” già a lungo studiato Oltralpe. Nel mirino c’è chi ha il colore della pelle sbagliato, chi vive nei caseggiati popolari, chi veste in un certo modo o ascolta la musica trap. Naturalmente, i controlli vengono giustificati ricorrendo alla necessità di contrastare la criminalità, ricorrendo ai consueti stereotipi dello spaccio di droga, della violenza, del degrado.
Ora, dopo un appello dei familiari del ragazzo morto alla calma, e dopo la notizia che è stata aperta un’indagine sul carabiniere che guidava l’auto inseguitrice, parrebbe che i disordini si siano placati. La zona è stata in ogni caso per il momento militarizzata, in attesa di ulteriori sviluppi.
Come avvenuto in altri casi – basterebbe pensare al Parco Verde di Caivano (vedi qui e qui) – la politica interviene con la maniera forte, tutt’al più con una manciata di spiccioli da spendere sul posto, mentre preferisce ignorare il problema complessivo che la “zona” pone, senza intervenire tentando di migliorare le condizioni di vita nell’area, o cercando di reinserire chi è rimasto ai margini. Si approfondiscono le frontiere reali e immaginarie tra le diverse parti dell’urbano: così, nell’assenza di un’azione politica efficace e di una idea socialmente condivisa di città, lo spazio dell’esclusione è destinato a crescere e a estendersi. Le banlieues di casa nostra non ci sono – ma forse c’è qualcosa di simile, se non di peggio, che si sta formando.