Assieme a quella dell’ennesimo aggravarsi dell’escalation in Ucraina, la notizia di politica internazionale che ha suscitato maggiore eco ultimamente è stato il mandato di arresto emesso dalla “Pre-Trial Chamber 1” (corrispondente più o meno al nostro “gip”) della Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu e del suo ex ministro della difesa, Gallant, a cui si è affiancato quello spiccato contro il capo di Hamas considerato più direttamente responsabile delle stragi del 7 Ottobre 2023, cioè Mohamed Deif (si vedano i seguenti comunicati stampa: qui e qui).
La Corte accusa i due politici israeliani di “avere privato la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sua sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicine e forniture mediche, nonché carburante ed elettricità, come minimo dall’8 ottobre 2023 fino al 25 ottobre 2024, […] senza nessuna chiara necessità militare o altra giustificazione accettabile dal punto di vista della legge umanitaria internazionale”. Tali azioni hanno avuto l’effetto di privare “una parte significativa della popolazione civile di Gaza […] dei propri diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita e alla salute […] per motivi politici e/o nazionali”. Secondo la Corte, “l’uso della fame come metodo di guerra” costituisce un crimine di guerra; l’aver privato la popolazione civile di Gaza del diritto alla salute, “un crimine contro l’umanità”. Questi sono i motivi, definiti fondati (reasonable), che hanno indotto la Corte penale internazionale a spiccare i mandati di arresto contro Netanyahu e contro Gallant.
Nel caso di Deif, i suoi capi di imputazione sono “la tortura come crimine contro l’umanità e crimine di guerra, lo stupro e altre forme di violenza sessuale come crimini contro l’umanità e crimini di guerra, il trattamento crudele come crimine di guerra e gli oltraggi alla dignità personale”, per le azioni compiute da Hamas il 7/10/2023, in varie località israeliane e al festival “Supernova”, nonché il crimine di guerra della presa di ostaggi.
A questo punto, alcune considerazioni. La prima, ovvia ma in generale trascurata, è che non si tratta di una sentenza, ma di un rinvio a giudizio: quindi nessuno può escludere, in linea di principio, che uno o più dei tre imputati possa essere assolto, se le accuse si rivelassero infondate o non sufficientemente provate (“al di là di ogni ragionevole dubbio”, che è la condizione per emettere le sentenze, la quale è diversa dai “fondati motivi”, per cui viene emesso un mandato di arresto). Questa possibile innocenza si può però dimostrare in sede di processo, che, per il regolamento della Corte, si può svolgere solo se gli imputati sono presenti; la richiesta di arresto è, in un certo senso, una garanzia a difesa della loro innocenza (che è presunta fino alla condanna, in tutti i Paesi civili); e questa è la seconda considerazione. La terza è che la richiesta di arresto nei confronti di Netanyahu e Gallant ha ben poche probabilità di essere eseguita (mentre ne avrebbe di più nel caso di Deif, se fosse ancora vivo): infatti le disposizioni della Corte valgono solo per i Paesi che ne riconoscono la giurisdizione, il che non è il caso di Israele, Stati Uniti, Russia e Cina; inoltre, anche nei Paesi che la riconoscono (come l’Italia e gli altri Stati dell’Unione europea), l’arresto non è automatico, ma prevede una procedura piuttosto complessa e lunga da attivare.
Quindi, sotto questo aspetto, i due politici israeliani possono dormire sonni tranquilli, come li sta dormendo Putin, contro il quale la stessa Corte ha emesso, un paio d’anni fa, un identico mandato d’arresto, per la sua condotta nel conflitto russo-ucraino. In quel caso, quasi tutti i politici e i commentatori occidentali elevarono grida di giubilo; nel caso di Netanyahu e Gallant, invece, molti degli stessi politici e commentatori si sono strappati le vesti, bollando la Corte di “antisemitismo”.
Tralasciamo qui le reazioni di Stati Uniti e Israele, tutto sommato scontate, anche se l’appoggio a Netanyahu, da parte dell’opposizione, dovrebbe far riflettere chi tende ad attribuire la responsabilità del comportamento israeliano a Gaza soltanto al suo governo. Ci soffermeremo sulle reazioni di alcuni politici italiani, tra cui è particolarmente grottesca quella di Matteo Salvini, che, oltre che di antisemitismo, ha accusato la Corte di “filoislamismo”, suggerendo così l’idea che la “Pre-Trial Chamber 1” sia formata da ayatollah che hanno provvisoriamente dismesso la tonaca per indossare la toga. Ora, può essere interessante ricordare che due membri su tre di questo organismo provengono da Paesi in larga maggioranza cattolici: il presidente è francese e una giudice è slovena; la terza giudice proviene dal Benin, dove i musulmani formano circa il 27% della popolazione, quindi è possibile, ma tutt’altro che certo, che sia di tale religione. Salvini replicherebbe prontamente che è “filoislamico” chiunque emani provvedimenti sfavorevoli a Israele o a cittadini israeliani. Stando a Popper, si tratterebbe di una teoria “infalsificabile”, cioè di un dogma indimostrabile: ma di filosofia della scienza certamente non importa molto a Salvini, il cui scopo è sempre e solo quello di grattare la pancia ai suoi elettori gridando al pericolo di una imminente invasione islamica dell’Italia.
L’altro vicepresidente del nostro attuale governo, Antonio Tajani, ha finto di bacchettare Salvini, ricordando che la politica estera non è di sua competenza, ma ha aggiunto che la Corte deve emettere provvedimenti “giudiziari, non politici”, muovendole, come per un riflesso condizionato, le stesse critiche che rivolge a tutti quei pm italiani che si permettono di chiedere il rinvio a giudizio di esponenti del centrodestra.
Occupiamoci ora della reazione di Giorgia Meloni, secondo cui “Israele e Hamas non possono esser messi sullo stesso piano”. Qualunque sia la nostra opinione in proposito, non si può fare a meno di replicare che il mandato di arresto della Corte penale internazionale non mette “sullo stesso piano Israele e Hamas”, ma tre specifici individui, Netanyahu, Gallant e Deif, e non potrebbe essere altrimenti, dato che la responsabilità penale è sempre personale e non collettiva (almeno nel mondo civile). Sulla stessa linea si collocano le critiche di chi, anche in buona fede, sostiene che non può essere messo in discussione “il diritto di Israele a difendersi”, che sarebbe leso da una richiesta di arresto nei confronti di due esponenti del suo governo per atti compiuti durante un’azione di legittima difesa.
Tuttavia, se si legge il comunicato stampa emesso dalla Corte penale internazionale, da cui abbiamo attinto tutte le citazioni che precedono, si può vedere che questo diritto non è mai messo in discussione: Netanyahu e Gallant non sono accusati di avere bombardato Gaza e di aver colpito con le armi anche la popolazione civile, ma di averla privata dei necessari mezzi di sussistenza e delle indispensabili cure sanitarie. In altre parole, la questione non riguarda il diritto di Israele a fare la guerra a Hamas nella striscia di Gaza, ma la liceità di alcuni dei mezzi impiegati in questa guerra; alcuni di noi avranno da obiettare anche sul fatto che Israele bombardi ospedali o edifici abitati da civili con la motivazione che al loro interno si può nascondere un qualche terrorista di Hamas – ma questo è del tutto estraneo al capo di imputazione mosso dalla Corte.
Un altro argomento avanzato per sostenere che la Corte non può “mettere sullo stesso piano” i due politici israeliani e il leader di Hamas è che Israele “è una democrazia”, mentre Hamas “è un’organizzazione terrorista”. Si potrebbero avanzare riserve sia sul grado di effettiva democraticità di Israele (per esempio, su come sono trattati al suo interno i cittadini arabi con cittadinanza israeliana o anche i detenuti palestinesi, spesso minorenni), sia sulla correttezza della definizione di Hamas semplicemente come “un’organizzazione terrorista”, ma lasciamo da parte questi problemi, per concentrarci su quello che è rilevante in questa discussione: la responsabilità penale. Facciamo un esempio: un criminale incallito uccide la figlia di uno stimato e assolutamente irreprensibile professore universitario, che reagisce uccidendo tale criminale. È evidente che la rispettabilità sociale dei due personaggi coinvolti è molto diversa: ma sono entrambi degli assassini. Così, se crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono ravvisati (“per fondati motivi”) tanto nelle azioni di Hamas, quanto in quelle di Netanyahu e Gallant, perché non dovrebbero essere tutti mandati sotto processo?
In conclusione, chi accusa la Corte penale internazionale di avere emesso un provvedimento che “mette Israele e Hamas sullo stesso piano”, o sbaglia, per i motivi che abbiamo illustrato, oppure ritiene che a Israele (o, meglio, al suo premier e al suo ministro della difesa) sia lecito far ricorso a metodi che, in altri casi, non solo quello di Hamas, ma anche quello di Putin in Ucraina, sono giudicati crimini di guerra. Si tratta dunque di un tipico esempio di “doppia morale”, che si può spiegare (ma non giustificare) con il fatto che qualunque critica a Israele è considerata per definizione un atto di “antisemitismo”. Tuttavia, il fatto che lo sterminio del popolo ebraico sia stato il più grande crimine commesso nella storia non può impedire che si accusino di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità alcuni dei suoi leader, se ci sono “fondati motivi” per farlo. Se lo si vuole impedire, si è di fronte a quell’“uso strumentale dell’olocausto” che denunciava già vari anni fa lo storico britannico Tony Judt (1948-2010). Qualcuno potrebbe dire che anche Judt era “antisemita”. Sull’applicabilità di questa etichetta a chiunque si permetta di criticare la politica di Israele abbiamo già espresso le nostre riserve (vedi qui); si tratta comunque di opinioni. Che Tony Judt fosse ebreo, e avesse anche lavorato nei kibbutzim israeliani per varie estati, negli anni Sessanta, sono invece dei fatti.