La tragicommedia è un genere letterario antico, che ha trovato sovente un utilizzo nell’espressione artistica contemporanea. Meno comune ritrovare la dimensione del tragicomico nello svolgimento di un incontro internazionale, che si proponeva di altissimo livello, e aveva come obiettivo la salvezza del pianeta dal riscaldamento globale. Il summit di Baku, ventinovesimo incontro sul clima, è cominciato sotto una cattiva stella (vedi qui). Snobbato dai potenti del mondo, pullulante di lobbisti delle aziende del fossile, protesi a difendere interessi miliardari, e affollato di affaristi di vario genere, il vertice è proceduto a sbalzi, alternando liti e polemiche a giornate di più serena trattativa.
Mai come in Azerbaigian è apparso difficile trovare un accordo su come affrontare i cambiamenti climatici in maniera equa, coinvolgendo nel progetto quanti più Paesi possibile; e, col vertice ormai agli sgoccioli, è dubbio che da queste giornate esca un passo in positivo. Lo sa bene il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che, con voce sempre più flebile e sempre meno ascoltata (serve ancora a qualcosa l’Onu?), ha chiesto che venga raggiunto un accordo. “Il fallimento non è un’opzione”, ha detto ai giornalisti. E ha ricordato, ancora una volta, che è necessario perseguire un obiettivo ambizioso di finanziamento delle misure anti-global warming. Tra l’altro, ha sottolineato che tutti gli Stati devono avere la possibilità di proteggere le proprie popolazioni dalle conseguenze del cambiamento climatico, che miete vittime ovunque, non solo in Europa. Il segretario ha lamentato, inoltre, che vi siano ancora “divergenze sostanziali”, criticando il fatto che molte parti negoziali siano ancora ferme alle loro posizioni originarie, e ha invitato i negoziatori a non dimenticare l’enormità della posta in gioco.
La bozza finora prodotta non fa che ricapitolare quanto visto finora negli incontri precedenti. Si scontrano due posizioni. Da un lato i Paesi ricchi, dall’altro il Sud globale: il disaccordo è completo sia sugli obiettivi da perseguire sia sui finanziamenti. Nello specifico, ai Paesi del Nord del mondo sembrano eccessive le richieste di triplicare il ricorso alle fonti rinnovabili, di raddoppiare l’efficienza energetica abbandonando completamente i combustibili fossili – petrolio, gas e carbone –, e impraticabile la proposta di alzare i finanziamenti ben oltre i cento miliardi di dollari sinora faticosamente raggiunti. Su quanto andrebbe messo sul piatto circolano le cifre più disparate: da chi ne propone quattrocento, a chi, come un gruppo di Paesi africani sostenuto anche dalla Cina, ne vorrebbe addirittura due trilioni.
Gli americani non intendono andare oltre i cento miliardi, e pensano già probabilmente all’annunciata uscita dagli accordi di Parigi da parte del nuovo presidente Trump. Di fronte a questa situazione, il capodelegazione dell’Unione europea, Wopke Hoekstra (già consulente della compagnia petrolifera Shell), ha avuto facile gioco nel dichiarare la prima bozza “sbilanciata, inattuabile e inaccettabile”, e nel suo intervento ha sottolineato come il testo faccia addirittura un passo indietro rispetto agli accordi faticosamente raggiunti, l’anno scorso, in extremis a Dubai (vedi qui).
L’Unione europea si è opposta anche alla possibilità di includere dei sotto-obiettivi, riguardanti i fondi da destinare alle perdite e ai danni dovuti agli effetti dei cambiamenti climatici, e agli aiuti climatici per i Paesi in via di sviluppo. Si traccheggia ancora, quindi, sulla annosa questione, in ballo fin dal 2015, dei loss and damage, dei “danni e perdite”, che dovrebbe avere il compito di introdurre uno strumento economico per compensare i Paesi più vulnerabili. Bruxelles polemizza anche su quali dovrebbero essere i nuovi finanziatori, additando quegli Stati che, come la Cina, figurano ancora nella Convenzione quadro come “in via di sviluppo”, ma non possono più certo essere definiti tali, essendo delle potenze a tutti gli effetti. Oltre alla Cina, all’India e ai Paesi petroliferi, di cui si è molto discusso negli ultimi anni, la delegazione di Bruxelles ha espresso in più circostanze l’intenzione di allargare la platea alla Corea del Sud, a Singapore e, a quanto pare, al Brasile. Ancora Hoekstra ha dichiarato che “i Paesi devono contribuire in base alle loro emissioni e alla loro crescita economica”. Perciò, nella disputa sull’importo dei futuri pagamenti, l’Unione ha frenato, sottolineando che offrirà somme concrete solo quando altre questioni chiave saranno state chiarite.
L’Europa, insomma, si mostra con il braccino corto, e sulle rigide posizioni assunte influisce anche la mutata composizione del parlamento europeo, dopo la scorsa tornata elettorale, con l’aumento dell’influenza di forze sovraniste, che spesso hanno espresso posizioni di negazionismo climatico. L’impressione è che l’Unione, più che dare l’addio al fossile, si prepari a congedarsi dal Green Deal (vedi qui), come mostrano alcune votazioni recenti in sede europea, riguardo, per esempio, alla questione della deforestazione (vedi qui). E questo è tanto più triste in quanto ci si aspettava, proprio dall’Europa, una funzione trainante nel favorire gli accordi e nel promuovere un’azione per il clima coordinata a livello internazionale.
Magra soddisfazione, la bozza finora elaborata chiarisce almeno che il sostegno all’adattamento alle conseguenze della crisi climatica, e i fondi per compensare i danni e le perdite, dovrebbero arrivare principalmente sotto forma di sovvenzioni, non attraverso prestiti, che non fanno che aumentare il peso del debito dei Paesi poveri. Altro contentino emerso dalle consultazioni: a Baku, come a Cali, durante la conferenza sulla biodiversità (vedi qui), è stata ribadita la necessità di dare voce ai popoli indigeni e alle comunità locali sull’azione per il clima. È stato infatti adottato il Baku Workplan, e rinnovato il mandato del Facilitative Working Group (Fwg) della Local Communities and Indigenous Peoples Platform, costituito nel corso della Cop24 di Katowice. La decisione di rinnovare il mandato del Fwg rappresenta un significativo passo avanti nel rafforzamento dell’impegno dei popoli indigeni e delle comunità locali nell’azione globale per il clima. Su una linea di intervento analoga, il Baku Workplan si concentra essenzialmente su tre aree chiave: promuovere lo scambio di conoscenze, creare capacità di coinvolgimento, e incorporare valori e sistemi di conoscenza diversi nelle politiche e nelle azioni per il clima. L’implementazione del piano dovrebbe cominciare nel 2025, con un workshop di definizione delle priorità.
In attesa dei documenti finali che usciranno da Baku, da cui non ci si può aspettare granché, forse il commento più efficace è quello di Fentje Jacobsen, responsabile delle politiche climatiche del Wwf, che ha affermato: “Non c’è alcun chiaro segnale positivo”. Questo lo si può tranquillamente affermare per tutte le conferenze che si sono succedute da Glasgow in poi. I grandi del mondo sembrano avere altre preoccupazioni, che vanno ben oltre il concordare i passi concreti necessari a ridurre le emissioni di gas serra, che continuano a far salire il termometro del pianeta.