Ma davvero è stata una vittoria? Davvero i numeri delle due indiscutibili affermazioni del centrosinistra in Emilia-Romagna e in Umbria parlano di una ripresa politica dell’opposizione al governo e di un nuovo protagonismo della sinistra italiana? In un contesto che vede la destra reazionaria dominare in larga parte dell’Occidente, e il fronte opposto al capitalismo liberista composto da teocrazie e dittature, che a loro volta hanno chiare collusioni con le forze più neofasciste in Europa, fare gli schizzinosi può risultare fastidioso. Ma proprio perché il quadro è drammaticamente avverso, con chiari rischi per la pace e le condizioni di vita di larghe masse di popolazione, bisogna analizzare bene il quadro, e capire quali siano gli spazi di un’eventuale ripresa.
Intanto i numeri, che nell’analisi di un’elezione aiutano sempre a focalizzare i problemi. L’Emilia-Romagna, da sempre lo zoccolo duro della sinistra italiana, con questa consultazione diventa una delle regioni del Nord più astensioniste. Il caso emiliano si omologa a Lombardia e Veneto, dove la routine amministrativa, qualsiasi cosa accada, viene delegata a un apparato centrale: se è la Lega nel lombardo-veneto, è il Pd oltre il Po. Mentre il voto di opinione si disperde nei rivoli del non voto.
Non è un dato da poco. Più che una sconfitta storica, quale sarebbe stata una sostituzione dell’egemonia democratica con una svolta a destra, siamo dinanzi a una mutazione socio-economica di quel laboratorio del “partito nuovo”, e di quella elaborazione sulle alleanze sociali, che Togliatti propose con il suo notissimo discorso pronunciato a Reggio Emilia, il 24 settembre del 1946. Sembra utile richiamarne un passaggio, per intendere cosa sia stata questa regione per il movimento del lavoro in Italia: “Non proponiamo una ricostruzione della nostra economia secondo princìpi comunisti o socialisti (…). Noi diciamo che occorre un ‘nuovo corso’ di economia e di politica economica. Ci si accusa di voler sopprimere l’iniziativa privata; ma la cosa non è vera. Noi vogliamo che venga lasciato un ampio campo allo sviluppo dell’iniziativa privata, soprattutto del piccolo e medio imprenditore”.
In queste poche righe, troviamo l’alchemica formula che fece del Pci il più grande partito di popolo della sinistra europea, spingendolo fino alle soglie del governo. L’Emilia-Romagna fu uno straordinario impasto di intraprendenza economica e imprenditoriale, innestata su una mobilitazione democratica che attraversava tutte le fibre del tessuto sociale.
I primati nella partecipazione elettorale di quelle popolazioni sono figli di una permanente e convinta intraprendenza nella gestione diretta del territorio. La decadenza di questa spinta non è solo la contaminazione di un’onda di disincanto, ma il segnale di un cambiamento radicale di quella formidabile formula, che combinava impresa e democrazia, proprietà e cooperazione. Non a caso le organizzazioni della regione, sia nel Pci sia nella Cgil, sono state sempre considerate un partito nel partito, un sindacato nel sindacato. Il crollo delle percentuali di voto – siamo a più di dieci punti in pochi mesi – indicano una rottura di questo legame sociale, che paradossalmente rende Bologna più simile a Roma, dove il voto al Pd è un voto di filiera e di relazione di interessi e di contiguità, più che di adesione rispetto all’originalità che quelle terre avevano mantenuto.
Già dall’Umbria era arrivato un avvertimento, con la scomposizione dell’humus sociale che identificava quelle comunità. L’umiliante sconfitta a Terni, con la vittoria della destra più avventurosa, cialtronesca e machista, insieme con l’ingrigirsi dell’amministrazione perugina e con l’appannarsi della trasparenza nelle valli delle banche spoletine, dove le appartenenze massoniche hanno definitivamente prevalso su quelle politiche, finirono con il consegnare l’amministrazione regionale alla Lega. Oggi le due vittorie spingono a interrogarsi su chi sia cambiato: il vincitore o il vinto?
Tornando ai numeri, non possiamo non osservare come, proprio per l’effetto distorsivo dell’astensione, vediamo che il Pd pigliatutto trionfa in Emilia-Romagna, ma perdendo più di ottantamila voti in cifra assoluta, e in Umbria con un meno di seimila voti. Una componente ha segnato un distacco dal partito, che diventa ancora più secco se misurato sulla tornata vincente.
L’altro dato politico è che Biancaneve, ingrassando, si è mangiata i sette nani. Infatti, attorno al torreggiante Pd, solo cespuglietti sfrondati. I 5 Stelle sono ai limiti dell’estinzione, e l’Alleanza verdi-sinistra disperde tutto il vento che aveva gonfiato le loro vele alle europee. Le liste di Fratoianni e Bonelli perdono, infatti, in valori assoluti, cinquantamila voti in Emilia-Romagna e diecimila in Umbria.
Anche il centrodestra paga a caro prezzo l’astensionismo. Pur mantenendo la percentuale del 40% racimolata alle europee, l’alleanza che sostiene il governo perde duecentomila voti nelle province emiliane e romagnole, e quarantamila in quelle umbre. Anche nelle forze della maggioranza nazionale si sta delineando una configurazione da Biancaneve che si mangia i nani, con Fratelli d’Italia che sembra resistere a ogni logoramento di governo, mentre la Lega e i berlusconiani escono ridimensionati.
Si direbbe che stiamo andando a un bi-partitismo perfetto. Con un centrosinistra che si rovescia tutto sul Pd e un centrodestra tutto meloniano. Ma ci sono due elementi che rendono più complesso e critico il quadro. Intanto, la qualità dell’astensione. Non è una muta protesta, o un allontanamento inerziale. La geografia e la dinamica di questo atteggiamento parlano di una negoziazione in corso: ceti, interessi e territori contrattano il consenso sui singoli provvedimenti. Si indebolisce la rappresentanza politica e si rafforza il corporativismo civico. La vittoria dei sindaci, che fa felici i commentatori, conferma che ormai si sta delineando una sorta di sindacalizzazione della politica, in cui singoli e occasionali rappresentanti locali ricevono il mandato a concertare la distribuzione di beni e risorse. La Lega fu quello, e non un partito trumpiano, come l’ha voluta travestire Salvini, per trovarsi ora sul banco degli accusati.
Oggi il Pd si ritrova al centro di un processo di federalizzazione a sua insaputa. Sala a Milano, Manfredi a Napoli, Gualtieri a Roma, e De Pascale a Bologna e Proietti a Perugia, sono ormai para-partiti che si combinano con una leadership nazionale, quella di Elly Schlein, che sempre più si atteggia a frontwoman, o a testimonial di una confederazione. Questa formula sarebbe anche una buona ancora di salvezza se fossimo in un regime di quiete. Ma con l’accoppiata Trump-Musk, che sta resettando l’Occidente, forzando l’alleanza fra masse frustrate di ceto basso ed élite professionali e tecnologiche, per scagliarla contro ogni forma di democrazia rappresentativa, ci sarebbe bisogno di altro. Bisogna contendere il popolo alla destra, con una narrazione nuova, che rimetta in discussione il potere e non l’amministrazione. E bisogna innovare l’innovazione, togliendo dalle mani dei proprietari la bandiera del decentramento dei servizi e dell’automazione della fatica.
Il buco nero del Pd è alla sua sinistra, non al centro. Biancaneve deve far crescere il suo nano più irruento e indisciplinato, non cercare di pettinare bene quelli diligenti.
A Perugia, nel gorgo di nomi e suggestioni, il segnale di un modo diverso di fare partito è venuto da una lista tutta giocata sulla sanità: un movimento di professionisti e di cittadini, finalizzato a un tema nodale per lo Stato, con un’organizzazione orizzontale e provvisoria, che mostrava come oggi si possa fare partito senza subire la domanda di protagonismo che sale dalla base ma giocandola in positivo. Anche a Napoli sta prendendo corpo una comunità sul tema dell’energia, che mira a una proposta regionale che potrebbe rompere lo stucchevole gioco attorno al terzo mandato di De Luca. Ripartire da qui, senza la frenesia della prossima elezione, potrebbe dare nerbo e identità al federalismo di fatto che sta germogliando.