Nonostante nel mondo siano cinquantasei i conflitti attivi, il numero più alto mai registrato dalla Seconda guerra mondiale, il pacifismo sembra avere perso terreno. Non riempie le piazze, non appassiona, non è il vessillo di un movimento ampio e coeso. Subendo un uso improprio da parte di governi e organizzazioni internazionali, la parola “pace” ha perso credibilità. Esempio ne sono le “missioni di pace”, con le quali i contingenti Onu sono mandati a sedare situazioni di conflitto, che però sfociano spesso in episodi di violenza. Lo dimostrano le molestie sessuali che i caschi blu hanno perpetrato nei Paesi in cui agivano.
Negli ultimi dodici anni, ci sono state oltre duemila denunce per abusi sessuali e sfruttamento presentate contro le forze di pace delle Nazioni Unite nel mondo. Come riporta l’Associated Press, più di settecento solo nella Repubblica democratica del Congo, il territorio che ospita il maggior numero di peacekeepers. Inoltre, troppe sono state le situazioni in cui si sono consumati massacri in nome della pace. Nel 1999, le forze della Nato intervennero in Kosovo per “ristabilire la pace”, senza mandato dell’Onu, causando migliaia di morti civili.
Anche a livello meramente simbolico, l’immagine della pace si è persa in altre lotte, altrettanto valide, e tuttavia meno ecumeniche: la bandiera arcobaleno è ormai icona del movimento Lgbtqia+, e il simbolo circolare, oltre a essere simile ad altri loghi commerciali, è appannaggio degli hippie della California fin dagli anni Sessanta e Settanta. La colomba con l’ulivo, invece, si porta dietro il peso del racconto biblico, simboleggiando il perdono di Dio nei confronti degli uomini più che la pace tra questi ultimi: perciò è facilmente usata dalle associazioni di stampo religioso. Come sanno bene le aziende di qualsiasi tipo, dai biscotti alle auto di lusso, chi non ha un’identità visiva definita, nel nostro mondo che si nutre di immagine, ha già perso in partenza. D’altronde, la bontà non va di moda: nel cinema come nella letteratura, la violenza è preponderante rispetto agli ideali di pace. Negli ultimi decenni, la cultura pop ha visto molti bad boys diventare celebri, e le storie truci e violente alla Tarantino sono assunte a veri e propri cult. Basti pensare al filone nostrano che – partito dal libro di denuncia di Saviano – ha finito col fare una serie di spot alla malavita, consacrando la camorra come uno stile di vita.
Non è però solo quest’aspetto superficiale a far scemare la forza con cui sostenere la pace. Il problema è che alcuni percepiscono l’idea di pace come un compromesso implicito, una quiete che contiene già in sé una sconfitta. La radice etimologica di “pace” è legata a pattuire, saldare, ma anche a pagare. Sottintesa, c’è l’idea che “fare pace” voglia dire di per sé “non vincere”.E vincere, qui e ora, è l’unico obiettivo. Se il miliardario è osannato perché “ce l’ha fatta”, se la competizione sul lavoro e nella sfera intima è assoluta, e la comunità è sfilacciata a sottile rete di conoscenze, non ci si può stupire che alla maggior parte delle persone sia stato insegnato a vincere, a ogni costo.
La stessa inconsistenza si trova nella gestione dei soldi pubblici. Sono decenni che i nostri governi condiscono con grandi parole di pace finanziamenti alle armi e a regimi violenti. Sulla strada dei “giusti” investimenti nelle aziende belliche, partecipate dallo Stato, come la Leonardo in Italia, sono saltate in aria case, strade e persone – e la pace è rimasta lì, comodo velo di buone intenzioni. Come dice Jacques Prévert nella sua poesia Il discorso sulla pace, “[…] Il grande statista incespicando / davanti al vuoto di una bella frase / ci casca dentro / e smarrito con la bocca spalancata / ansimante / mostra i denti / e la carie dentaria dei suoi pacifici ragionamenti / mette a nudo il nervo della guerra: la delicata questione di denaro”.
Per chi si informa quindi, inevitabilmente, la parola pace, scomodata così spesso per intenti propagandistici, ha perso il suo valore intrinseco. E se un tempo in Europa ci si poteva illudere di essere “portatori di diritti umani”, “eredi dell’illuminismo”, oggi abbiamo sempre con noi fonti di notizie che ci mostrano cosa accade in tempo reale in altre zone del mondo, col benestare del vecchio continente. Per il cosiddetto Sud globale – costituito soprattutto da ex colonie, uscite spesso da sanguinose guerre d’indipendenza, costrette ad accettare debiti altissimi, condizioni contrattuali sfavorevoli, il dominio assoluto del dollaro – cos’è la pace, se non un accordo imposto? Pensiamo allo stato pietoso in cui versa Haiti, da cui la Francia pretese un “risarcimento” smisurato a riscatto della libertà. Dopo 122 anni, il Paese caraibico ha pagato un totale di 560 milioni di dollari attuali, qualcosa che ha causato il fallimento dell’economia, e l’impossibilità di investire in infrastrutture. Solo per essere stati tra i primi ad alzare la testa, pretendendo la fine della schiavitù e l’indipendenza. Solo per ottenere, appunto, la pace.
La narrazione della nostra fetta di mondo occidentale come conciliante, e per lo più tendente alla cooperazione, altro non è che una strumentalizzazione consapevole. Non c’è una pace sincera e duratura finché non c’è una qualche parità, almeno approssimativa. E non c’è parità finché un Paese sarà egemone nei confronti di un altro.
In questo modo, si alimenta solo un sentimento di rivalsa contro una giustizia negata che, più forte della volontà di patteggiare, finisce col romanticizzare la resistenza contro l’agguato esterno, cosicché ogni violenza diventa lecita. Ne è un esempio la situazione al confine russo-ucraino, con i due Paesi che continuano a indulgere al fratricidio. Il documentario We Want to Live Here di Alexandrina Turcan, presentato alla rassegna di “Alice nella città”, racconta le storie di tre bambini ucraini in una cittadina quasi completamente distrutta dai bombardamenti. Attraverso le vite paradossali di questi preadolescenti, tra le macerie di un luogo che avevano appena iniziato a conoscere, il cortometraggio mostra una violenza latente e disturbante. I loro allenamenti di boxe, il murale di David contro Golia – ogni elemento lascia intendere una “resistenza” che, in quanto difesa contro un oppressore, permette però ogni ferocia. Alla fine, si è chiesto ai bambini cosa avrebbero fatto avendo davanti un ragazzino russo, e uno di loro ha detto: “Lo guarderei mentre metto suo padre in un sacco nero”. Pensieri di vendetta. La stessa rabbia cieca che si ritrova, del resto, nella brutalità del 7 ottobre, una risposta violenta alla repressione di settant’anni di occupazione perpetua. Non si pretende lucidità da chi ha subito e subisce continuamente soprusi, ma da lontano questa lucidità si può e si deve mantenere. Si deve avere contezza delle questioni generali, trasversali. Bisogna opporsi a chi semina distruzione profittando dell’odio ovunque: aziende, governi, più in generale il sistema capitalistico che ci vuole in constante competizione.
Alla manifestazione del 26 ottobre scorso contro la guerra, c’era un’evidente differenza generazionale rispetto ai cortei per la Palestina che ci sono stati dall’inizio del genocidio a Gaza e dell’inasprimento della situazione in Cisgiordania. Perché? Molti dei giovani, ventenni e trentenni di oggi, sono arrabbiati. Vedono ogni giorno morire bambini, bruciare le persone, saltare in aria i palazzi, con la complicità dei nostri governi, e sentono tradita la parvenza di pace, i valori e i diritti appresi dalle bambine e dai bambini dell’Occidente liberale. Generazioni segnate da problemi di salute mentale, che non hanno mai avuto una forte ideologia a tenere insieme le macerie della contemporaneità, e ora si trovano a dover scegliere se procreare in una situazione climatica e geopolitica al limite. In questa condizione, che non hanno contribuito a costruire, sono inquieti e impotenti.
L’ingiustizia chiama la rabbia più della pace; la resistenza palestinese è simbolo della lotta all’ingiustizia, come diceva Malcom X, nel 1965: “La lotta per la giustizia in Palestina è una lotta universale, un’eco risonante delle battaglie sollevate dai popoli oppressi in tutto il mondo”. La rabbia è naturale, in molti casi legittima e formativa, ma va ragionata, incanalata nei giusti parametri di una convivenza pacifica. Con quasi sessanta conflitti attivi nel mondo, sarebbe utile ripartire dal sentire che la propria libertà finisce dove inizia quella dell’altra e dell’altro, per poi, come diceva David Graeber, riappropriarsi dell’utopia e credere che un sistema diverso sia possibile.