Così, dopo tre anni, è finita mestamente l’esperienza di governo della coalizione “semaforo”, ormai consegnata alla storia. E dire che era nata sotto ottimi auspici e con i migliori propositi, all’insegna dello slogan “osare più progresso”, e di una ben articolata proposta di rinnovamento del Paese. Ma l’ambizioso progetto politico presente nel programma sottoscritto dai partiti della coalizione, di cui parlammo in dettaglio a suo tempo (vedi qui), si è infranto su una serie di scogli imprevisti e, possiamo dire, anche difficilmente prevedibili: coda della pandemia, guerra in Ucraina, distruzione del gasdotto Nord Stream, crisi economica.
La sera del 6 novembre, a Berlino, c’è stato lo show finale con la resa dei conti. Un finale col botto: il cancelliere Scholz si è presentato davanti alla stampa e si è espresso con una passionalità per lui insolita. Ha accusato il suo partner di coalizione, Christian Lindner, ministro delle Finanze e leader del Partito liberale, di tradimento degli accordi. Per Scholz, Lindner si è sistematicamente sottratto a una serie di interventi proposti dal governo, negando il suo assenso: “Non voglio più sottoporre il nostro Paese a questo tipo di comportamento”, ha affermato.
In realtà, in passato i due si erano trovati spesso d’accordo: il cancelliere si è spesso posizionato più vicino al ministro delle Finanze che ai verdi e ai suoi stessi compagni della Spd, soprattutto sulle questioni economiche. Per esempio, quando ha respinto la richiesta di calmierare il prezzo dell’energia elettrica, in linea con quanto in quel momento voleva Lindner. E per quanto riguarda il bilancio, nei primi due anni di governo, Scholz non ha mai espresso commenti negativi, almeno pubblicamente, nei confronti del suo ministro.
Le cose sono cambiate l’estate scorsa, quando sono apparse le prime crepe sulla questione del freno all’indebitamento, e ci sono stati attriti sul rifinanziamento dell’Ucraina. Nel momento in cui si è trattato di come colmare buchi di bilancio del valore di miliardi, Scholz e Lindner si sono scontrati pubblicamente. La questione era se il bilancio potesse essere riequilibrato attraverso un aumento del debito. La rottura è avvenuta sull’ultimo documento economico presentato dal ministro, in cui questi ha avanzato richieste che sono state interpretate dalla Spd e dai verdi come una vera e propria dichiarazione di guerra.
Il testo prevedeva infatti la procrastinazione ad calendas degli obiettivi previsti per la riduzione del riscaldamento globale, e pesanti restrizioni alla spesa sociale. Il documento “va visto come una provocazione”, ha detto in serata il ministro dell’Economia e della transizione ecologica, Robert Habeck (verde), il quale ritiene che chiudere l’esperienza della coalizione sia tragico, soprattutto in un momento in cui la Germania dovrebbe mostrare la propria forza. In tarda serata, sono volati gli stracci: Lindner non ha accettato la responsabilità di avere fatto collassare la coalizione, e l’ha rispedita al mittente. Ha accusato la cancelleria di una rottura calcolata e di avere imbastito una sceneggiata preparata da tempo. E ha contrattaccato pesantemente, dicendo: “Scholz non ha voluto vedere per molto tempo la necessità di un nuovo risveglio economico per il nostro Paese. Ha banalizzato a lungo le preoccupazioni economiche dei cittadini, e ha contribuito a creare la tragica situazione in cui attualmente versa il settore manifatturiero”. Lo scambio di battute, senza esclusione di colpi, mostra quanto malcontento deve essersi accumulato all’interno della coalizione nelle ultime settimane. La rottura è dunque avvenuta sulla questione della spesa: Scholz avrebbe voluto convincere il ministro delle Finanze a sospendere il blocco all’indebitamento per finanziare l’aumento degli aiuti all’Ucraina, che sarebbe necessario dopo l’elezione di Trump. Al tempo stesso, Scholz voleva anche ridurre il costo dell’energia elettrica, garantire posti di lavoro nell’industria automobilistica, e pagare bonus alle aziende che investono in Germania. Ma Lindner ha difeso il freno all’indebitamento, e ha preteso invece tagli ai servizi sociali e ai pensionati. Di qui la secca replica di Scholz: “Non sono disposto a finanziare il nostro sostegno all’Ucraina e gli investimenti nella nostra difesa a scapito della coesione sociale”.
Sempre più chiaro quale sia la posta in gioco, e il teatrino che abbiamo riassunto mostra chiaramente come i partiti abbiano già l’occhio alle nuove elezioni. Scholz vuole affrontare a metà gennaio un voto di fiducia che, in caso di probabile fallimento, potrebbe portare a nuove elezioni del Bundestag, alla fine di marzo 2025. Fino a quella data vorrebbe governare da solo con i verdi – ma non ha i numeri, e sta cercando anche un dialogo temporaneo con Cdu e Csu per ottenere la maggioranza parlamentare, almeno sulle più importanti proposte legislative.
Indipendentemente da quando si svolgeranno le nuove elezioni, nelle prossime settimane verranno prese decisioni importanti per i partiti. Da oggi, non dovrebbero esserci più dubbi nella Spd sul fatto che farà la campagna elettorale con Scholz: raramente hanno avuto una leadership così fortemente caratterizzata. I verdi, dal canto loro, probabilmente proclameranno ufficialmente Habeck come loro candidato cancelliere, durante il congresso del partito che si terrà tra poco più di una settimana. Infine, i liberali non lasciano dubbi sul fatto che Lindner sarà il numero uno indiscusso del partito, e che affronteranno con lui la prossima campagna.
Nel frattempo, l’opposizione conservatrice dei cristiano-democratici e dei cristiano-sociali ha chiesto a Scholz di sottoporsi al voto di fiducia del parlamento tedesco già la settimana prossima, e non a gennaio, come auspicato dal cancelliere. “Con il ritiro del Partito liberale è ormai chiaro che non esiste una maggioranza parlamentare che abbia fiducia nel cancelliere, una continuazione del governo sarebbe arrogante e irrispettoso nei confronti degli elettori”, ha dichiarato il presidente della Csu, Alexander Dobrindt. Sulla questione è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Frank Steinmeier, che ha cercato di ridimensionare il tutto: “Non è il momento delle tattiche e delle scaramucce. La fine di una coalizione non è la fine del mondo. È una crisi politica che dobbiamo lasciarci alle spalle”.
Intanto, la campagna elettorale è praticamente già iniziata, e sono partiti i sondaggi, che danno la Cdu-Csu al 32%, seguita dall’estrema destra di AfD con il 18%, solo terza la Spd, stimata al 16%, intorno all’11% i verdi, i liberali al 4%, che così rimarrebbero – come la Linke – sotto lo sbarramento del 5%. Come dire che oggi la coalizione farebbe tutta insieme poco più del 30% dei voti, confermando il trend pesantemente negativo delle ultime amministrative.
Ora che il “semaforo” è passato fra le cose che si ricordano, non è difficile rilevare che la guerra in Ucraina è stata decisiva nel minare la coalizione, non solo per le divergenze sul ruolo della Germania nel conflitto – basterebbe pensare alla contesa tra i verdi e Scholz sulla concessione dei missili a lunga gittata Taurus –, ma anche perché ha sottratto risorse economiche consistentissime ai programmi di ampliamento del welfare e di rilancio dell’economia. Con la storica scelta del riarmo, con la Zeitenwende, in poco tempo si sono dovuti trovare decine di miliardi da spendere per l’esercito, oltre agli aiuti economici e al soccorso agli ucraini. E il 6 novembre non è stato solo il giorno della brusca rottura nella coalizione, ma anche quello dell’elezione di Trump. Sul governo di Scholz pesa già una crisi economica senza precedenti, ma le ricette protezionistiche preannunciate dell’amministrazione Trump potrebbero peggiorare ulteriormente la situazione tedesca. Un’analisi dell’Istituto per l’economia (IW) stima che i nuovi dazi sui prodotti europei, che il neopresidente statunitense vorrebbe introdurre, potrebbero costare alla Germania 180 miliardi di euro nei quattro anni di mandato. Si apre per il Paese un periodo di incertezze e di difficoltà, che pare destinato a durare, con la crisi verticale di molti partiti, tra cui i verdi, alle prese con forti dissidi interni su immigrazione e politiche sociali; con lo stesso Partito liberale che rischia di scomparire; della crisi potrebbero invece approfittare le forze più radicali, come appunto Alternative für Deutschland e il BSW di Sahra Wagenknecht, che si sta rapidamente organizzando per raccogliere consensi anche a Ovest.