“Porca miseria!”: il vocale dell’amico è inequivocabile, la delusione a sinistra tangibile, e fluisce massiccia attraverso il tamtam dei social. Marco Bucci è il nuovo presidente della Regione, per un soffio l’auspicato e lungamente atteso “cambio di regime” non c’è stato. Lo scarto di poche migliaia di voti complessivi, tra Bucci e Orlando, e la débâcle del sindaco a Genova, in cui è stato praticamente sfiduciato e dove stravince il candidato del Pd, parlano di una battaglia accesissima.
Rimane da aprire una riflessione a sinistra sui motivi di una sconfitta sorprendente a opera di una destra che pareva smarrita, ormai alla conclusione di un ciclo dopo Totopoli (vedi qui). Erano in molti a ritenere che, con l’uscita di scena di Toti, i giochi fossero fatti, e che fosse sufficiente giocare d’attesa per riprendersi la Regione. Invece il “modello Genova”, seppure a più riprese colpito, non è stato ancora affondato: è ancora virtualmente al suo posto e operante, quando i sondaggi, fino a un mese fa, attribuivano ancora diversi punti di vantaggio a Orlando.
Nel giro di pochissimo tempo, è stato permesso ai rivali, nonostante i conflitti interni, di riorganizzarsi e di recuperare. Le ragioni di quello che appare come un vero e proprio autogol, e che qui possono essere addotte, sono molte. Per un verso, l’entrata in lizza di un “campo largo” zoppo, dato che l’autoestinzione dei 5 Stelle procede a pieno ritmo, e gli ultimi conflitti nella dirigenza, a livello nazionale, hanno provocato un quasi dimezzamento dei suffragi rispetto alla precedente tornata elettorale: il partito-movimento rimane bloccato al 4,5% , un calo riassunto e anticipato dall’atteggiamento del fondatore Beppe Grillo, che, dopo non avere preso posizione per nessuno dei due candidati, pare non sia andato nemmeno a votare, imitato da molti dei suoi fedelissimi. Per altro verso, ha pesato una campagna singolarmente mal fatta, segnata da litigi e ripetuti screzi tra gli alleati, di cui espressione emblematica è stato il caso Renzi, con tutte le sue miserie. Il candidato del Pd, pure efficace, anche se spesso scarsamente “passionale”, molto “tecnico” nelle sue uscite pubbliche, è apparso però attorniato da un gruppo inadeguato, appesantito da figure di apparato dotate di scarso appeal e di modesta rilevanza personale.
Le parole d’ordine del centrosinistra sono state per lo più improntate a un conservatorismo di fondo, con reiterati appelli alla “Liguria perbene”, dando sostanzialmente l’impressione che non si intendesse tanto operare una cesura netta con la gestione dell’ultimo decennio, quanto piuttosto riprendere un filo passatista, rispolverando proprio l’antico vizio di immobilismo e quell’abitudine all’amministrazione dell’esistente che avevano portato alla imprevista vittoria di Toti, nel 2015. In particolare, nel corso della campagna, molte ambiguità hanno circondato il destino delle grandi opere avviate dal centrodestra, di cui solo in parte si prefigurava una cauta revisione. Insomma, con una boutade, si potrebbe dire che la proposta politica suggerita era che all’ancien régime al tramonto non avrebbe tenuto dietro alcuna rivoluzione, ma un modesto e prudente riformismo.
Per converso, Bucci ha giocato fino in fondo le sue ormai logore carte di “sindaco del fare”, presentandosi, ancorché gravemente ammalato, come un combattente e un guerriero. Apparso spesso, nelle sue ultime uscite, trascurato nell’abbigliamento e nel portamento personale, a volte brusco e sbrigativo nelle risposte ai giornalisti, la sua campagna elettorale è stata tuttavia bene orchestrata mediaticamente, improntata a un minimalismo essenzialista, in cui era ribadita la sua figura di homo faber non particolarmente colto e forbito, mediante l’ostentazione di una rudezza che non può non risultare gradita alla proverbiale semplicità dei liguri.
Va anche detto che con il 29% il Pd ha ottenuto un buon risultato, ed è, con ampio distacco, il primo partito. Ma va considerato un altro fattore: la crescita paurosa dell’astensionismo. I votanti si attestano al 46% contro il 54% della tornata precedente, e il non-voto tocca punte vertiginose in provincia di Imperia, dove va alle urne solo il 38%, e ci va prevalentemente l’elettorato del centrodestra, di modo che il sindaco Scajola, deus ex machina della tornata elettorale, porta a casa un pesantissimo 60% per Bucci. Impressiona ovunque, in particolare, l’astensionismo giovanile, su cui non ci sono ancora dati chiari, ma che è stato sicuramente enorme, esprimendo il disagio crescente di una generazione costretta a emigrare o ai lavoretti sottopagati, che non ha trovato nessun motivo di interesse nella contesa in corso, in cui è stata per lo più menzionata occasionalmente e di sfuggita, senza un’offerta politica e una proposta concreta che potessero coinvolgerla.
Se il governo festeggia, leggendo il risultato come una conferma del suo operato, è vero però che alcune linee di frattura si sono disegnate, sia per quanto riguarda la regione – divisa in due, tra le province “rosse” di Genova e La Spezia, e Imperia e Ventimiglia appannaggio delle destre – sia per quanto riguarda il capoluogo, il cui dato non può essere ignorato, configurando un chiaro e massiccio respingimento del “modello Genova”.
In ogni caso, la partita non è chiusa, e l’affermazione del centrodestra potrebbe risultare alla fine una vittoria di Pirro. Ora, dopo un interregno in cui dovrebbe essere reggente il vicesindaco Piciocchi, Genova dovrà eleggere un nuovo sindaco nel 2025: visti i risultati delle regionali, probabilmente molti nodi verranno al pettine. Il centrodestra sarà in grave difficoltà nel mantenere il controllo di una città in cui, come ha ammesso lo stesso Bucci in una dichiarazione rilasciata a caldo dopo il successo, “forse si sono aperti troppi cantieri”.