Farebbe sorridere, se non fosse drammatico, sostenere che l’Egitto di al-Sisi possa essere considerato un Paese sicuro. Eppure il nostro governo lo ha annoverato tra i diciannove Paesi in cui rispedire gli immigrati che arrivano in Italia. Peccato che nulla sia cambiato a undici anni dal colpo di Stato militare del 3 luglio 2013, che cancellò il risultato delle elezioni vinte da Mohammed Morsi, leader del partito islamico Libertà e giustizia, membro della Fratellanza musulmana, morto in carcere nel 2019 per mancanza di cure mediche. Con lui, vennero arrestati altri dirigenti e militanti, le cui manifestazioni di protesta, organizzate nelle piazze Rab’ia al-Adawiyya e al-Nahda, costarono la vita – a seconda delle fonti – a seicento o duemila manifestanti, alcuni morti per l’asfissia causata dai gas lacrimogeni, come raccontato nel film Clash (2016) di Mohamed Diab.
Non si può dimenticare, poi, la tragica uccisione di Giulio Regeni, avvenuta nel gennaio del 2016, e i cui responsabili verosimilmente non saranno mai assicurati alla giustizia, per non parlare del caso Zaki (su cui vedi qui). Inoltre, tra le figure di spicco vittime della repressione, ci sono stati il fotografo Shady Habash, morto in carcere, l’attivista Lgbtq, Sarah Hegazy, suicidatasi a seguito delle torture subite, e l’avvocata Mahienour El-Masri, che si occupa dei diritti dei lavoratori e ha trascorso quasi due anni in detenzione.
Il regime ha stroncato ogni speranza di cambiamento dopo la rivolta di piazza Tahrir, del 2011, nell’ambito di quelle che furono le “primavere arabe”. Anche le organizzazioni sindacali – in particolare la Federazione egiziana dei sindacati indipendenti –, dopo il golpe, hanno visto fortemente ridimensionato, se non azzerato, il proprio ruolo, grazie alla cooptazione dei dirigenti nelle istituzioni governative, come nel caso del leader, Kamal Abu Eita, divenuto nel governo ad interim, guidato da Hazem al-Beblawi, ministro della Manodopera e dell’Immigrazione, tra il 2013 e il 2014, mettendo così a tacere le rivendicazioni dei lavoratori.
Da allora, a pagare le conseguenze della cancellazione di ogni diritto democratico, non sono stati solo gli islamici, ma anche i dissidenti liberali e di sinistra, finiti a migliaia nelle carceri. Come denuncia il mensile dei comboniani “Nigrizia”, “i detenuti politici egiziani hanno subìto processi farsa, l’estensione infinita dei termini della custodia cautelare, rotazioni tra casi con diverse imputazioni per prolungarne la detenzione, per non parlare delle violenze in custodia, delle morti senza ottenere adeguate cure mediche, dei suicidi in prigione, delle minacce ai familiari dei detenuti in Egitto e all’estero”.
Non sono mancate le scomparse di attivisti, a immagine e somiglianza delle dittature sudamericane degli anni Settanta e Ottanta; ma allora, in un quadro mondiale diverso, e certamente più solidale, mezzo mondo si indignò e molti esuli furono accolti in Europa. Ora, invece, la sorte dei dissidenti egiziani non interessa a nessuno. E le misure repressive approvate nel 2013 sono ancora tutte lì, immutate. “La tecnica di prevenire il dissenso con la legge anti-proteste, approvata nel 2013 – informa sempre “Nigrizia”, riportando fonti di Amnesty e dell’Egyptian Iniziative for Personal Rights –, e il pretesto delle misure anti-terrorismo, usate per limitare qualsiasi forma di opposizione, avviata dopo il golpe, continua ancora oggi senza alcun segno di rilassamento”. Anzi, contravvenendo a una prassi contraria al ricorso alla pena di morte, sono state migliaia le condanne a morte, soprattutto nei confronti dei dissidenti politici.
Il quadro che abbiamo descritto ha naturalmente scoraggiato ogni tentativo di cambiare lo stato delle cose – soprattutto se un Paese importante, come l’Italia, considera il gigante nordafricano un luogo sicuro in cui spedire persone che avrebbero bisogno di ben altro trattamento, e se tutto l’Occidente intrattiene normali relazioni politiche ed economiche con il regime di al-Sisi, che ha prolungato il suo mandato fino al 2030, dopo il referendum costituzionale del 2019, dando così vita a un contesto autoritario peggiore di quello di Hosni Mubarak (al potere dal 1981 al 2011). Insomma, un Putin nordafricano, con il quale però si possono fare affari, e che continua ad avere normali relazioni diplomatiche con Israele, con la Russia, con la Francia, con tutti i governi italiani, che con le loro politiche hanno contribuito alla legittimazione del regime. Senza dimenticare gli Stati Uniti che, dopo avere appoggiato la Fratellanza musulmana, sono tornati sui loro passi sostenendo quello che l’ex presidente Donald Trump ha definito il suo “dittatore preferito”, al quale garantì 1,3 miliardi di dollari l’anno in aiuti militari: una scelta mai messa in discussione nemmeno dalla successiva amministrazione democratica.
Il modello egiziano, del resto, sta ispirando il presidente tunisino Saïed, che da un paio di anni ha messo in atto una preoccupante torsione autoritaria, cancellando ogni conquista della “rivoluzione dei gelsomini” (vedi qui). Pensare che, in questo contesto barbarico, gli immigrati possano essere trattati con riguardo equivarrebbe a dire che in Libia gli stessi vengono ospitati in hotel a cinque stelle. “Le autorità egiziane – denuncia Amnesty International – arrestano regolarmente richiedenti asilo e migranti che stanno per entrare o risiedono irregolarmente nel Paese, trattenendoli in condizioni detentive crudeli e disumane, espellendoli illegalmente e con la forza, a volte senza un’adeguata valutazione dei loro bisogni”.
È del tutto evidente che la lista realizzata dal governo per “ospitare” i migranti si è basata sugli interessi commerciali anziché sui resoconti e le denunce di Amnesty. A conferma di ciò, è arrivata la notizia secondo cui la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, ha inaugurato la Scuola italiana di ospitalità “Campus Enrico Mattei” a Hurghada, sul Mar Rosso, finalizzata allo sviluppo del turismo, con tanto di stretta di mano con il ministro suo omologo.