Quel bastone che un ormai rassegnato, ma pur sempre rabbioso, Yahya Sinwar, agitava contro l’immancabile drone che sadicamente lo riprendeva mentre moriva – nel pomeriggio del 17 ottobre, nel sud della martoriata striscia di Gaza, a poco più di un anno dal tremendo massacro di civili israeliani del 7 ottobre 2023, di cui fu la mente e l’esecutore – rimarrà come emblema della nuova mobilwar, la guerra della connettività mobile. Rappresenterà il nuovo codice semiologico del potere, che parla permanentemente sempre di se stesso.
Il capo di Hamas, il movimento terrorista installato proprio nella striscia del territorio palestinese occupato da Israele, appare, nel filmato diffuso on line, accovacciato fra le macerie di un caseggiato bombardato, accerchiato da un reparto di reclute delle forze di Tel Aviv. Sta vivendo gli ultimi istanti della sua vita, e si trova faccia a faccia con quell’oggetto volante che lo aveva localizzato e contro cui non ha altro da scagliare se non un bastone, reinterpretando così la leggenda di Davide e Golia. Un gesto che è proprio la plastica rappresentazione di quanto sta accadendo in quella parte di mondo, e anche, più in generale, di come siano mutate le categorie fondamentali sia della guerra sia della pace.
L’iconografia dei vincitori ha sempre usato, come media, i corpi dei vinti. Da Giulio Cesare sulle scale del senato, utilizzato da Antonio per una magistrale orazione che divenne poi la base della sollevazione popolare contro i congiurati, alle storiche immagini di Piazzale Loreto, dove un popolo, ancora oppresso dal complesso di colpa del consenso non negato al tiranno, si libera dal suo peccato originale infierendo sui cadaveri, alle performance più recenti con le salme della coppia Ceausescu, o ancora di Saddam Hussein, Gheddafi, Bin Laden, mostrati al pubblico ludibrio. L’esibizione di quei corpi al mondo, sulla rete, rispondeva a un codice preciso: sono sicuramente morti, e noi abbiamo sicuramente vinto.
Oggi cambia completamente il messaggio: non si vuole più trasmettere la certezza dei morti, quanto invece certificare la vulnerabilità dei vivi. Non si tratta più di infierire sui corpi dei grandi criminali politici, per saziarci con la loro agonia e stroncare ogni mitologia mostrandone l’ineluttabilità della sconfitta. Si vuole dire a tutti gli spettatori che hanno solo un bastone di fronte ai droni o ai cercapersone che esplodono nelle tasche di Hezbollah.
Certo, l’unica opzione che rimane agli sconfitti è quella di usare proprio lo scempio del cadavere, la furia dei vincitori, per documentare il coraggio di coloro che hanno osato sfidare il cielo. La propaganda iraniana cercherà di mitizzare il bastone di Sinwar. Ma il vero segnale che raggiungerà simultaneamente tutti coloro che vedranno il filmato, con lo stesso sincronismo con cui è arrivato il trillo ai cercapersone degli Hezbollah, sarà l’ammonimento a non reagire se non vogliono ritrovarsi con solo un bastone in mano. Non a caso la vera risposta che le milizie sciite hanno tentato è stata quella di forzare il blocco, arrivando con un drone nei pressi dell’abitazione della famiglia Netanyahu a Cesarea. Quella sarebbe stata la vera risposta. Fallita.
In questo scambio di comunicazioni mortali, mai come questa volta, il messaggio è il mezzo, direbbe McLuhan. Il mezzo con cui viene appunto decretata la morte del nemico, quella perfezione tecnologica che suona come un avviso: chiunque, anche senza essere un leader in guerra, può essere intercettato e colpito. Siamo tutti connessi a morte.
Ora, non è chi muore il messaggio ma come muore. Con quale modalità viene scovato ed eliminato, questo si esibisce al mondo. Vedere le immagini, quasi alla moviola, con un sadico zoom che stringeva su un animale braccato, quale il demoniaco Sinwar nei suoi ultimi istanti ripresi dalle telecamere del drone, annuncia universalmente come ognuno possa trovarsi in quella posa, rannicchiato fra le macerie. Il tratto caratteristico della scena non è l’epopea della vittima ma la condizione globale della connettività: si mostra cosa si possa fare esattamente nella condizione in cui viviamo tutti: connessi. Il drone, che riprende e trasmette in diretta le immagini dell’eliminazione del leader islamico, è il protagonista, Sinwar è il pretesto.
La logistica militare appare come il catalogo di casa, come una vetrina di un qualsiasi digital store, con le dotazioni di cui ci serviamo ordinariamente nella nostra esistenza: telefonini, computer, wi-fi, tv in streaming, oggetti connessi, microchip, batterie. Dunque non è la guerra la condizione di pericolosità, lo sono i suoi strumenti esattamente identici a quelli che usiamo noi. Tutta la nostra attività si tramuta in un unico videogame, in cui la posta in gioco è la nostra sicurezza. La vita diventa una permanente caccia all’uomo, in cui ogni relazione o funzione si traduce in attività di cybersecurity. Siamo tutti nelle spire di una nuova morsa invisibile, che usiamo tutti i giorni per costruire la nostra vita, e viene poi riconvertita in arma letale: la connettività.
Sia in pace sia in guerra ci stiamo allineando lungo un’unica linea d’ombra, in cui status civile e militare si sovrappongono. In questo contesto, assume una luce diversa l’intesa del governo con la compagnia spaziale di Elon Musk per connettere gli italiani a basso costo: connettere a chi e per che cosa? Chi avrà i nostri dati e a chi li venderà? Stesso ragionamento per quanto sta accadendo sui processi di digitalizzazione della sanità e della scuola, in cui l’integrazione con risorse di intelligenza artificiale sta avvenendo mediante appalti ai gruppi monopolistici che sono sul banco degli accusati sia a Bruxelles sia a Washington. E su tutte queste cose registriamo un assordante silenzio da parte delle opposizioni. Perché non parli? sarebbe da urlare alla sinistra, come il superbo Michelangelo dinanzi al suo Mosè.