È la “vecchia Francia”, come ha notato un commentatore, che è andata al governo con il premier della destra ex gollista, Michel Barnier: quella Francia che si è opposta all’introduzione del matrimonio gay, che ha molti dubbi sul diritto di aborto, e che, stando alla dichiarazione del neoministro dell’Interno, Bruno Retailleau (non a caso proveniente dalla Vandea), vuole “ristabilire l’ordine, ristabilire l’ordine, ristabilire l’ordine” – proprio così, ripetuto per tre volte. L’ordine sarebbe poi fermare il più possibile l’arrivo dei migranti e difendere le forze di polizia a piè sospinto: come se non fossero già decine i manifestanti che hanno perso un occhio per i tiri di lacrimogeni e proiettili di gomma ad altezza d’uomo, e questo già sotto il ministro precedente (anche lui uscito dalla destra ex gollista), Gérald Darmanin, proiettato ora verso una probabile candidatura presidenziale. Il velo centrista della politica francese è definitivamente caduto, lunedì 23 settembre, alle ore 15, quando – in base al sistema francese della “monarchia repubblicana”, che fa del governo una sorta di emanazione del capo dello Stato – il presidente della Repubblica ha riunito presso di sé, all’Eliseo, il nuovo governo.
Macron aveva avuto davanti a sé la possibilità di nominare la rappresentante scelta dalle forze di sinistra, uscite con una maggioranza relativa dalle elezioni indette da lui stesso (a dispetto dei suoi sostenitori, consapevoli della disfatta a cui andava incontro il “campo presidenziale”), ma ha preferito volgersi a destra, dopo avere tentato di rompere l’unità delle sinistre con un ballon d’essai chiamato Cazeneuve, ex premier durante la presidenza Hollande e soprattutto ex socialista chiamatosi fuori dal partito in occasione dell’accordo elettorale con Mélenchon, già nel 2022. Essendosi rifiutato il segretario socialista, Olivier Faure, con la maggior parte del suo partito, di operare una rottura a sinistra, Macron e i suoi hanno costruito un’alleanza con la destra, che può reggersi in parlamento solo grazie al beneplacito dell’estrema destra di Marine Le Pen. Giro lungo, questo del centrismo – per arrivare alla fine a negare se stesso.
E pour cause, si potrebbe dire: il centrismo è in serie difficoltà ovunque, non solo in Francia. Si pensi a quanto è accaduto nelle elezioni del Brandeburgo, in Germania (vedi qui), con i cristiano-democratici arrivati in quarta posizione – e soprattutto alla composizione, chiaramente spostata a destra, della seconda Commissione europea di von der Leyen, con la presenza al suo interno di due rappresentanti dei gruppi di estrema destra nel parlamento europeo (vedi qui). Più in generale, si pensi all’ascolto prestato dai centristi a tutti quegli interessi che vorrebbero annacquare se non azzerare il programma della transizione ecologica.
In Francia assistiamo, tuttavia, a una deriva verso destra innescata precisamente da una crisi, ormai più di una decina di anni fa, del Partito socialista, che solo da poco ne sta venendo fuori. All’origine ci fu la “politica dell’offerta” sotto la presidenza del socialista Hollande: una politica economica che consiste nell’abbassare le tasse a chi fa impresa (e in generale ai più ricchi), nell’illusione che ciò significhi maggiore occupazione e maggiore benessere. Macron, ex ministro economico di Hollande, una volta messosi in proprio, ha accentuato questa politica eliminando, tra l’altro, la “tassa di solidarietà sulla fortuna” che colpiva comunque i redditi più alti. Il risultato è che oggi la Francia è sull’orlo del dissesto economico (quasi più dell’Italia). Ma Macron, imperterrito, ha voluto al dicastero dell’Economia qualcuno a lui vicino per confermare la sua politica.
Perfino Barnier, come accade a chi ha responsabilità dirette, starebbe accarezzando la possibilità di alzare le tasse per iniziare a uscire dal debito eccessivo. Si tratterebbe di rompere un tabù – lo stesso che avrebbe volentieri rotto la coalizione delle sinistre, che però prevedeva un contemporaneo aumento degli investimenti statali per provocare un’onda di choc nell’economia e non far marcire, più di quanto non stia già accadendo, i servizi pubblici. Il governo Barnier appare invece quello di un necessario immobilismo per tirare a campare, unito a una serie di provvedimenti anti-immigrati e pro-forze di polizia per conquistarsi l’accondiscendenza dell’estrema destra.
Nel sistema francese non c’è un voto di fiducia in parlamento perché un governo sia pienamente in carica. Tocca alle opposizioni di presentare una mozione di sfiducia (detta “di censura”) per farlo cadere in virtù di una maggioranza assoluta. Affinché questo accada, le forze di sinistra e l’estrema destra dovrebbero convergere sommando i propri voti. Com’è chiaro, questa non è al momento una eventualità probabile. A meno di non poter prevedere, dal risultato di una votazione del genere, le dimissioni di Macron, destinato altrimenti a restare alla presidenza fino al 2027, anno della conclusione del suo mandato.
Ma al di là del “blocco” costituzionale, tipico della Quinta Repubblica, la vicenda francese ci racconta di una socialdemocrazia andata verso destra, sedotta dalle sirene neoliberiste, spaccata per dare vita a una forza centrista, o meglio pseudo-tale, ma che non riesce a tenere il Paese ed è spinta a riesumare la destra ex gollista. Bel giro, che conferma soltanto una cosa: i partiti del socialismo europeo devono tornare a sinistra, nell’attuale quadro politico generale, se vogliono contrastare l’avanzata delle destre, ormai più estreme che moderate. È quanto ha compreso il segretario socialista francese. Ed è la linea seguita in Spagna da Sánchez.