Dallo scorso lunedì 16 settembre, gli indigeni dell’altopiano boliviano, conosciuti come ponchos rojos, hanno iniziato a bloccare le strade del dipartimento della capitale La Paz e la strada internazionale per il Perù, accendendo falò e impedendo il passaggio dei veicoli con pietre e detriti. Chiedono le dimissioni del presidente Luis Arce e del vicepresidente David Choquehuanca. Ex ministro dell’Economia, il primo, ed ex ministro degli Esteri, il secondo, dei governi di Evo Morales. Entrambi accusati di essere i responsabili della crisi economica che, da tempo, sta causando al Paese carenza di dollari e di carburante.
Il loro principale leader, David Mamani, ha dichiarato che la protesta cesserà quando Arce e Choquehuanca si saranno dimessi e saranno convocate nuove elezioni. Nonostante la Defensoría del Pueblo, ovvero l’ufficio del difensore civico, abbia esortato il governo e i gruppi che hanno dato vita alla protesta ad avviare un dialogo e a “mantenere la calma”, si sono registrati episodi di violenza che hanno causato diversi feriti, anche tra gli agenti di polizia.
Il giorno prima, parlando a una emittente televisiva, circondato da campesinos a lui vicini, il presidente Arce aveva accusato Morales di avere ispirato il blocco stradale con lo scopo di abbreviare il suo mandato, e aveva sostenuto che l’iniziativa “finirà in un tentativo di colpo di Stato”. “Evo, hai deciso di iniziare una marcia, uno sciopero della fame e un blocco nazionale delle strade, e non lo stai facendo per la vita, per la democrazia o per l’economia, lo sappiamo tutti, ma per la tua candidatura, che vuoi imporre con le buone o con le cattive. (…) Se ti preoccupassi davvero dell’economia, avresti da molto tempo chiesto ai tuoi deputati di approvare le leggi economiche che hai bloccato nell’Assemblea legislativa”, ha dichiarato il presidente, che ha anche accusato Morales di cercare che le cose vadano male per apparire come il “salvatore” della Bolivia e “rimanere al potere per altri quattordici anni o più”.
La risposta dell’ex presidente non si è fatta attendere, è giunta secca attraverso un messaggio su X. “Luis Arce non è solo disperato, ma anche confuso”, ha detto Morales, che ha negato che le manifestazioni siano legate alla sua candidatura, sostenendo, invece, che sono il riflesso del “malcontento del popolo nei confronti di un governo che ha protetto la corruzione, che non ha mai fatto nulla per risolvere la crisi”. Evo ha anche reso nota l’intenzione dei manifestanti di iniziare una “Marcha nacional para Salvar Bolivia”, che si concluderà lunedì 23, per protestare contro la situazione economica e difendere il Movimiento al socialismo (Mas) da quello che è stato definito un tentativo di “proscrizione”. Il primo giorno, vicino alla città di Vila Vila, a 165 chilometri da La Paz, è avvenuto uno scontro con lanci di pietre e di petardi tra i seguaci di Evo Morales e un gruppo, per lo più di minatori, fedeli al governo di Luis Arce, che cercavano di bloccare la loro avanzata nell’altopiano boliviano.
Mentre i sostenitori del presidente, guidati dalla Central obrera boliviana (Cob), presidiano Plaza Murillo a La Paz, per costringere i legislatori ad approvare i crediti richiesti dall’esecutivo e altre norme legate al sistema pensionistico e ai diritti dei lavoratori, negli ambienti governativi e in alcune frange dell’opposizione si è fatta strada l’idea che l’intenzione di Evo Morales sia quella di rovesciare Luis Arce. La conseguenza è stata che, da più parti, si è suggerito l’arresto dell’ex sindacalista cocalero, con il probabile risultato di precipitare il Paese nel caos più completo.
Nella vicenda è intervenuta anche la Conferenza episcopale boliviana, con una dichiarazione in cui fa appello “alle autorità pubbliche e a tutti coloro che esercitano misure di pressione a puntare sul dialogo franco e sincero, al fine di risolvere la complessa situazione sociale che sta vivendo” il Paese. I vescovi boliviani hanno anche fatto sapere che i blocchi stradali “non sono la soluzione più giusta” alla “preoccupante situazione politica, economica e sociale” che sta attraversando la Bolivia. Dato che questo tipo di misure, “invece di aiutare a trovare soluzioni, danneggiano lo sviluppo del Paese e colpiscono direttamente la popolazione impedendo la sua libera circolazione e lo svolgimento del suo lavoro quotidiano”.
La distanza tra Morales e Arce certo non è una novità, era risultata evidente fin dalla fine del 2021. Come si ricorderà, Morales aveva già forzato la sua candidatura nel 2019, dopo essere stato rieletto una seconda volta come concesso dalla Costituzione, e nonostante un referendum del 2016 avesse respinto la sua rielezione. Allora l’Organizzazione degli Stati americani aveva denunciato elezioni viziate da brogli, il che aveva scatenato proteste sociali che avevano provocato trentasette morti, dopo le quali Morales era stato costretto a dimettersi, rifugiandosi prima in Messico e poi in Argentina. Dopo che il governo ad interim di Jeanine Áñez aveva indetto nuove elezioni, Morales aveva nominato il suo ex ministro dell’Economia come candidato, e così il Mas era tornato al potere nel 2020.
Alla rottura tra i due, si è giunti solo l’anno scorso (vedi qui), dopo che Evo è stato confermato leader del Mas e nominato “candidato unico” del partito per le elezioni presidenziali del 2025 (bicentenario dell’indipendenza dalla Spagna) da un congresso al quale Arce e il vicepresidente Choquehuanca non hanno partecipato, dato che, secondo loro, non rappresentava adeguatamente le organizzazioni sociali che formano la spina dorsale del partito. Mentre però la ricandidatura di Evo è vietata dalla Costituzione, Arce, che non ha ancora detto se si candida o meno, avrebbe pieno diritto di correre per un secondo mandato.
Sta di fatto che, pur avendo i sostenitori di entrambi i leader convocato diversi congressi del Movimiento, l’autorità elettorale boliviana non ne ha riconosciuto nessuno, affermando che è necessario un congresso ufficiale che riunisca entrambe le fazioni, affinché il Mas possa partecipare alle elezioni presidenziali del prossimo anno. Lo svolgimento di questo congresso e il rinnovo della direzione del partito costituiscono, infatti, un requisito legale affinché il Mas possa presentarsi alle elezioni il prossimo anno. I sostenitori di Morales lo hanno proclamato più volte come “candidato unico” per le elezioni del 2025, mentre il blocco leale ad Arce insiste nel rinnovare la direzione del Mas e sostiene che la candidatura dell’ex presidente non è più possibile. Per questo, agli obiettivi già ricordati, i marciatori aggiungono anche il rispetto delle risoluzioni del congresso del 2023 (non riconosciuto dal Tribunale elettorale) in cui è stata decisa la candidatura dell’ex presidente nel 2025.
Contrastato dal governo nella sua volontà di ricandidarsi, Morales ha minacciato di provocare disordini, nonostante lo scorso anno la Corte costituzionale sia giunta a una sentenza a lui sfavorevole, potendo contare sul sostegno incondizionato di quegli strati – cocaleros, gruppi indigeni, in prevalenza aymara, e minatori – che ha difeso durante la sua presidenza, tra il 2006 e il 2019: gli stessi che ora hanno dato vita ai blocchi stradali e alla marcia di circa 187 chilometri dalla città di Caracollo, nella regione andina di Oruro, verso La Paz.
A spingere i circa cinquemila suoi fedeli che hanno cominciato a marciare, c’è il desiderio di “salvare la patria” di fronte a problemi come la carenza di dollari e carburante, e l’aumento dei prezzi: opportunità che per loro possono concretizzarsi solo con “Evo presidente”. Da qui la richiesta delle dimissioni di Arce e del suo vice, e l’assunzione della presidenza ad interim da parte del trentacinquenne capo del Senato, Andrónico Rodríguez, vicino a Morales. Un passaggio che, nei calcoli di Evo, potrebbe spianare la strada alla sua agognata ricandidatura. “Se il primo e il secondo uomo abbandonano il popolo, c’è il terzo uomo di Stato, il fratello Andrónico Rodríguez con noi”, ha detto Morales. Come ha osservato il ministro della Giustizia, Iván Lima, una volta assunto l’interim, Rodríguez potrebbe “da lì forzare la candidatura illegale e incostituzionale di Morales”.
Ma è stato lo stesso Andrónico Rodríguez a respingere l’intenzione di rovesciare il governo o di promuovere la successione presidenziale per abbreviare il mandato del presidente Luis Arce e del vicepresidente David Choquehuanca. Lo ha fatto nel corso di una conferenza stampa in cui ha affermato che “il governo denuncia un piano machiavellico e parla di colpo di Stato, rottura dell’ordine costituzionale e accorciamento del mandato. Voglio esprimere, con molta fermezza, che non faccio parte di nessun piano e non mi presterò a questo fatto”.
A spingere Morales, c’è anche il fatto che nei sondaggi risulta l’uomo politico boliviano che, assieme al maggior rifiuto, riscuote anche il più vasto consenso da parte dei suoi concittadini, i quali, a fronte della crisi attuale, guardano con nostalgia ai tempi in cui ha governato. Allora, grazie allo sfruttamento degli idrocarburi, la Bolivia aveva potuto svilupparsi, avere liquidità e godere di un tasso di cambio stabile. Quando Evo è salito al potere, nel 2006, una delle sue prime misure è stata la nazionalizzazione degli idrocarburi, che ha riempito le casse dello Stato rendendo l’economia stabile, favorendo la sua rapida crescita e il controllo dell’inflazione. Durante quasi tutta la sua amministrazione, il ministro dell’Economia è stato “Lucho” Arce, a cui va il merito del “miracolo economico” che la Bolivia ha vissuto per più di un decennio. Proprio l’uomo che ora è il suo peggior nemico. Tuttavia, il modello ha cominciato a traballare alla fine di marzo 2023, dopo circa tre anni di governo Arce, tanto che, a un anno e mezzo dai primi segnali di allarme, la crisi economica è innegabile e non sembra avere una facile soluzione. Il calo della produzione di idrocarburi e l’aumento del deficit fiscale, provocato dal sussidio dei carburanti in vigore nel Paese, hanno ridotto la liquidità dello Stato nell’ultimo anno, e l’origine della crisi è da ricercarsi nella decadenza del settore del gas naturale, che ha fatto crollare le entrate dello Stato, passate da 5.489 milioni di dollari all’anno, nel 2014, a meno di 1.700 milioni di dollari attuali. La Bolivia spenderà, nell’anno in corso, 1,2 miliardi di dollari per importare benzina e gasolio a prezzi internazionali, che poi venderà a metà del suo costo. Per finanziare questi acquisti, il governo ha fatto ricorso alle riserve in valuta estera, aggravando la carenza di dollari che, a sua volta, influenza l’aumento dei prezzi del paniere di base, facendo, nel contempo, nascere un mercato nero che è arrivato a raddoppiare il tasso di cambio ufficiale. Infine, la produzione di gas, che aveva guidato l’economia boliviana fino al 2014, è entrata in crisi a causa dell’esaurimento dei pozzi e della mancanza di nuove scoperte dovute a un calo degli investimenti.
Solo recentemente Arce ha parlato della situazione economica, proponendo strategie per riattivarla. Lo ha fatto ancora in televisione, in una sorta di lezione di economia in cui ha fatto riferimento all’inflazione globale, all’aumento del prezzo dei carburanti, al cambiamento climatico e al “blocco economico” dei crediti internazionali in atto all’Assemblea nazionale. È proprio in quel consesso che è apparsa perfettamente chiara la volontà di Evo di far fallire l’azione del governo, imponendo ai parlamentari a lui fedeli di bloccare, durante più di un anno, l’approvazione di crediti esterni per un miliardo di dollari, fondi che avrebbero in qualche modo potuto alleviare i problemi economici causati dalla scarsità di quella valuta nel Paese. Senza potere risolvere alla base le ragioni della crisi, dal momento che Arce ha anche spiegato che la sua origine sta nella cattiva gestione della politica degli idrocarburi, da lui imputata ai governi di Morales, e nella mancanza di esplorazione di nuovi campi.
Come tutto ciò possa tranquillizzare la popolazione – che da mesi affronta l’aumento dei prezzi e l’impossibilità di ottenere dollari, anche quelli che sono nei conti bancari – è davvero difficile prevedere. E lo scontro che oppone i due ex alleati avrà il probabile effetto di indebolirli entrambi. Entrambi colpevoli di accelerare quel declino a cui il Mas sembrerebbe destinato ormai da tempo: nessuno dei due, salvo colpi di scena, è probabilmente in grado di affermare la propria candidatura e vincere le elezioni.