(Questo articolo riprende temi del convegno “Matteotti, martire e maestro”, svolto nella Villa Medicea di Cerreto Guidi, il 14 settembre 2024, con Stefano Caretti, Valdo Spini e l’autore.)
“Vogliono il nulla perché sono nulla. Io non intendo più oltre assistere a simile mortorio. Cerco la vita. Voglio la lotta contro il fascismo”. Così Giacomo Matteotti si sfoga con Filippo Turati, il 17 marzo 1924; sta parlando dei suoi compagni, quelli del partito che dirige, il Partito socialista unitario. Poche settimane dopo, il suo cadavere sarà una presenza terribilmente ingombrante; al punto che già poco dopo si dirà: questa storia ha insegnato al fascismo com’è facile uccidere un vivo e com’è difficile uccidere un morto. Ancora sotto occupazione tedesca, nell’oscena agonia repubblichina, Mussolini sentirà il bisogno di riprendere la questione con un giornalista e di mentire di nuovo, come sempre, cercando di allontanare da sé la responsabilità. Negli ultimi giorni il capo del fascismo si sforzerà di portare con sé le carte su Matteotti, riuscendoci quasi sino alla fine.
Matteotti è un martire, certo. È più importante, però, riaccendere il suo modello. Cosa insegna, il maestro Matteotti? L’ordine del discorso del suo libro Un anno di dominazione fascista – più acuto di un pamphlet e più incalzante di una requisitoria – indica la strada. Riporta prima le mascalzonate economiche, gli accaparramenti, la devastazione della società, e poi le azioni squadristiche. Che l’ordine sia stato ribaltato, anche nelle edizioni recenti, è un malinteso. Da recuperare, invece, è il metodo dell’attenzione minuziosa ai pessimi provvedimenti, allo sfruttamento dei lavoratori, all’amministrazione sciagurata, alle ruberie di partito.
Matteotti politico dà l’esempio di uno sforzo continuo di unità, quando vuole riacciuffare senza complimenti i riformisti cedevoli al compromesso – la tentazione del collaborazionismo toccò molti socialisti e non risparmiò la Confederazione generale del lavoro – e ricondurre a un progetto efficace l’estremismo confusionario.
Matteotti economista è attento alle implicazioni delle scelte di classe del padronato: sua è la denuncia, alla Camera il 31 gennaio 1921, del fatto che le amministrazioni locali socialiste si fanno carico di municipi indebitati dalla destra, e che quando provano a tassare i proprietari, questi trovano più conveniente armare gli squadristi che pagare le tasse. Oggi chi è al governo le paragona al “pizzo”, e l’elementare spiegazione contabile del fascismo, fatta dal grande socialista, è ancora un faro.
Matteotti contabile la sa ancora più lunga, perché scrive persino un manuale per spiegare ai nuovi amministratori come gestire la cosa pubblica, e si preoccupa di rassicurarli: l’argomento non è poi così difficile, studiate. Un uomo infaticabile e indomabile. È sempre lui che, il 5 giugno 1924, quando si esamina l’esercizio provvisorio 1924-1925, sbeffeggia il re nudo: il bilancio ufficiale, che sembra in pareggio, è falso; quello vero è in disavanzo. Non vivrà una settimana.
Nel diritto civile sa come ridimensionare la proprietà, quando propone che le espropriazioni tengano conto del valore dichiarato dai proprietari per la tassazione; sa anche com’è importante l’imposta sulle successioni; oggi la memoria corre alla proposta prudente di qualche anno fa, sulle grandi eredità, che costò al moderatissimo Enrico Letta un’accusa di comunismo.
Nel diritto penale, cavallo di battaglia sin dagli studi universitari, la sua attenzione va alla recidiva, un istituto che nel nostro secolo ha già visto un notevole inasprimento. E anche alle condizioni dei detenuti, su cui si documenta grazie a viaggi interminabili, per allora, e alle doti di poliglotta. L’equilibrio che cerca, fra le varie scuole giuridiche dell’epoca, conoscendole senza sposarne rigidamente nessuna – è innamorato della libertà di giudizio –, dovrebbe essere d’esempio. Invece, proprio ora, si vedono provvedimenti forcaioli: mentre le condizioni delle carceri peggiorano, si criminalizzano le proteste incruente, rischiando di costruire attorno ai detenuti doveri di obbedienza che non esistono più neanche per i soldati.
Sulla centralità della rappresentanza parlamentare il maestro è giovane e aggiornato, adesso, visto che per le elezioni nazionali vuole la proporzionale e in Un anno di dominazione fascista si schiera contro una riforma costituzionale sul tipo del cancellierato.
Della scuola ha un’idea funzionale e nobile. Nel 1919, sulla libertà d’insegnamento rivendicata dai clericali, denuncia che si tratta di “un’insegna posticcia”, di un “guanto di velluto dietro il quale stanno mettendo le unghie”. Da anni, ora, la scuola paritaria, cioè privata, riceve soldi pubblici con buona pace della Costituzione. Matteotti propone che il popolo “impari anche delle astrazioni”; vuole un insegnamento “libero, poetico, astratto”: altro che alternanza scuola-lavoro. E dopo, nel 1923, denuncia che il governo fascista ottiene più poteri “per abbandonare spese di istruzione e di previdenza aumentando quelle per gli armamenti”. Ricorda niente, nel bellicoso 2024?
Giurista vivo, fremente, non ingessato nel cinismo dei giureconsulti, tipo quelli da busto impettito ai giardini pubblici, Matteotti non le manda a dire, quando denuncia la “esuberante sfornata annua di giurisperiti”, quando bersaglia “le file parassitiche di quell’avvocateria italiana che vive sulla litigiosità di popolazioni arretrate e sulla teatralità retorica dei processi penali”, quando chiama la facoltà di legge “enorme fabbrica di spostati” che impartisce “una cultura che è tutta posticcia, formalistica, proceduristica”.
Il fatto che il mondo giuridico non gli abbia perdonato tanta franchezza, e che i suoi scritti di diritto siano poco noti o circondati da una diffidenza che somiglia a un cordone sanitario, è la prova migliore della condizione problematica dei giuristi. È rimasta irrisolta? No, è peggiorata, perché ai tradizionali baronaggi di poche università, quasi tutte blasonate, si è sostituita una pletora di istituti di formazione che usano metodi bolsi o praticoni, a volte senza neanche averne gli strumenti tecnici.
Piero Gobetti, nel 1922, quando scrive che il fascismo “è stato l’autobiografia della nazione”, aggiunge: “È difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica quotidiana che una misura di eccezione”. Matteotti – nel 1924 Gobetti morituro gli dedica un testo formidabile – rispetto a quell’autobiografia è uno straniero, perché rifugge da ogni falsa semplificazione, ma insieme ama immensamente la vita, proprio mentre la cerca nella lotta.
E non è risorgimentale, la conclusione dell’intervento di Matteotti alla Camera, il 30 maggio 1924? “Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità”. In tempi di sovranismo da schiavi, di accaparramento, di bottega che fa pagare il conto a chi resta a mani vuote, ecco un uomo che da cento anni non smette di insegnare la libertà.