Sorprende non poco leggere la petizione lanciata da Daniele Novara, uno dei più influenti pedagogisti italiani, e dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti da lui fondato, per chiedere che si vieti fino ai quattordici anni l’uso di uno smartphone personale e fino ai sedici la possibilità di creare un profilo sui social network; e non meno sorprende trovare tra i firmatari persone stimabili, come Federica Lucchesini o Anna Oliverio Ferraris (il testo della petizione si può leggere qui). Poiché si tratta di una petizione promossa e firmata da pedagogisti (anche se non mancano personalità del mondo dello spettacolo, che evidentemente hanno poca competenza sul tema, ma sono mediaticamente più efficaci di qualunque pedagogista), non si può fare a meno di notare due cose.
La prima è che una cultura del divieto si concilia poco con quella pedagogia progressista alla quale appartengono senz’altro Novara e non pochi dei firmatari della petizione, mentre è in piena continuità con le posizioni del ministro Valditara e del governo Meloni. La seconda è che l’argomentazione della petizione, appena embrionale, è centrata interamente sul ricorso alle neuroscienze: “La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica – si legge – ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale”. Ed è evidentemente una fallacia. Sia perché ricorrendo alle neuroscienze si possono affermare molte cose in campo pedagogico, e non siamo sicuri che piacerebbero tutte ai firmatari della petizione (per dirne una: non è poi così certo, alla luce delle neuroscienze, che esista una cosa come il libero arbitrio, e anche lo stesso io personale vacilla), sia perché non è affatto vero che le neuroscienze giustifichino un tale allarme.
Non ha alcun senso la contrapposizione tra esperienze nel mondo digitale e esperienze nel mondo reale, senza chiedersi quali esperienze. Essere picchiato per un bambino è senz’altro una esperienza nel mondo reale, ma probabilmente sarebbe più utile, in questo caso, una esperienza nel mondo digitale. Conta dunque quali esperienza fa il bambino, e in quale contesto. Secondo una ricerca di studiosi italiani pubblicata su “NPJ Scienze of Learning” (Action video games normalise the phonemic awareness in pre-readers at risk for developmental dyslexia), per esempio, nei bambini all’ultimo anno della scuola dell’infanzia l’uso di videogiochi d’azione può migliorare la consapevolezza dei fonemi prevenendo problemi di dislessia. In generale, chiunque abbia qualche cognizione di neuroscienze sa che il cervello è plastico, e non ha alcun senso parlare di aree del cervello che non si sviluppano pienamente (ma quali, poi?).
Quanto ai social network, sembra che i firmatari ignorino che il regolamento dell’Unione europea sulla privacy (General data protection regulation) vieta l’iscrizione ai social network ai minori di sedici anni, pur lasciando agli Stati membri la possibilità di abbassare la soglia, ma non scendendo sotto i tredici anni. In Italia, è vietato avere un profilo sui social network al di sotto dei quattordici anni. E sappiamo bene che è un divieto che lascia il tempo che trova, perché i bambini accedono ben prima a social come Instagram o TikTok. Non cambierebbe nulla se si estendesse il divieto fino a sedici anni.
Ma se la demonizzazione dello smartphone è davvero sciocca, l’allarme legato ai social network non è ingiustificato. È lecito però nutrire qualche dubbio sull’efficacia dei divieti. Crediamo che il compito di un pedagogista sia quello di fare e proporre un percorso più complesso (l’educazione, del resto, è sempre un percorso più complesso). Non è possibile risolvere un problema a valle se non se ne cerca la causa a monte. E a monte del problema della dipendenza da social network (che è tutt’altro che un fenomeno solo adolescenziale, ovviamente) abbiamo almeno due cose.
La prima è il fatto che molti social network, tra cui quelli più usati da bambini e adolescenti, sono pensati per creare dipendenza. Quando otteniamo un like su un social, il cervello rilascia dopamina, il neurotrasmettitore legato al piacere e alla ricompensa. Questo ci spinge a continuare l’interazione con l’app, alla ricerca di sempre nuove gratificazioni. Ma è un meccanismo perverso che genera anche frustrazione e ansia, quando i like non arrivano, oltre all’enorme dispendio di tempo e di energie.
Il problema, qui, è dunque quello della dipendenza. La dipendenza da social network non è diversa da qualsiasi altra dipendenza, come quella da alcol o dal gioco d’azzardo. Ora, è senz’altro una buona idea tenere l’alcol fuori dalla portata di un alcolista, ma sarebbe sciocco pensare di risolvere in questo modo il suo problema. Dietro una simile dipendenza vi sono fragilità – anche strutturali, ossia sociali ed economiche – che vanno affrontate. E un modo efficace per farlo – lo ha insegnato Vladimir Hudolin, il creatore dei club di alcolisti in trattamento – è il confronto con gli altri. Mettere delle persone che soffrono di una dipendenza a confrontarsi è meglio che limitarsi a vietare o a una qualche terapia che escluda una dimensione comunitaria.
In ambito scolastico, questo vuol dire che gli studenti devono essere guidati a scoprire la loro condizione di dipendenza (che naturalmente non riguarda tutti), cosa che si può fare facilmente dando uno sguardo sullo smartphone ai tempi di permanenza sulle singole app. È possibile anche informarli sui meccanismi psicologici e neurologici che sono dietro il successo di alcuni social, ed è doveroso (magari nell’ambito dell’educazione civica) ragionare con loro su questioni come la privacy, l’uso dei dati, la polarizzazione causata dai social e l’estrazione di valore dalla vita quotidiana delle persone resa possibile dal capitalismo della sorveglianza. Fatto questo, però, bisognerà che siano loro a confrontarsi. Perché facciamo uso dei social network? Cosa vi cerchiamo? Arricchiscono la nostra vita o la impoveriscono? E in che modo possiamo usarli diversamente? Quale socialità vogliamo? È il lavoro che avrebbe fatto Danilo Dolci, con cui lo stesso Novara si è formato.
Il secondo problema a monte riguarda la scuola. Molte delle cose che passano sullo schermo di uno smartphone sono fatte per catturare l’attenzione. È il caso soprattutto dei video su TikTok e dei reels su Instagram, che vanno per la maggiore tra gli adolescenti. Ora, è impossibile che la scuola riesca a catturare l’attenzione allo stesso modo, e non è nemmeno desiderabile. Ma la scuola non può essere nemmeno l’ambiente asettico, dalle pareti bianche, spesso sporche e spoglie, in cui tocca stare seduti e immobili ad ascoltare qualcuno che parla. I docenti sanno bene che quando si passa dalla passività all’attività lo smartphone passa in secondo piano. Sempre che non diventi uno strumento utile per quella stessa attività. Un ambiente ricco di esperienze, stimolante, umanamente gratificante difficilmente lascerebbe spazio ai social network. Soprattutto, un ambiente socialmente denso, nel quale la comunicazione sia continua, viva, aperta. Una scuola che non riesca a creare una simile socialità ha un problema più grave dell’uso dello smartphone da parte degli studenti.