Com’è andato l’attesissimo dibattito tra Kamala Harris e Donald Trump? Secondo alcuni commentatori italiani a caldo, e stando ai giornali del giorno dopo, la candidata democratica ha vinto ai punti. Ai punti? Piuttosto ha vinto alla grande. Secondo un sondaggio della Cnn, eseguito subito dopo il dibattito, il 63% degli spettatori ha dato la vittoria a Harris e il 37% a Trump: due terzi per lei, poco più di un terzo per lui, mentre prima del dibattito gli stessi spettatori prevedevano un match alla pari.
La conferma dell’instant poll è venuta il giorno dopo, da un sondaggio sul gradimento dei due candidati. Prima del dibattito, erano valutati sostanzialmente alla pari, intorno al 40%; dopo il dibattito, Harris è schizzata verso l’alto, con il 45%, e Trump è sceso al 39% – un cambiamento che, come c’era da aspettarsi, ha riguardato soprattutto gli elettori indipendenti (quelli che, all’atto della iscrizione nelle liste, non dichiarano la loro appartenenza partitica), che rappresentano per entrambi i candidati il sacro Graal, la terra promessa da raggiungere e conquistare.
Quindi non una vittoria ai punti, ma una sonora sconfitta per Donald Trump. Com’è stato possibile? Semplicemente perché Trump è stato Trump: come al solito aggressivo, sproloquiante, confuso, con il chiodo fisso dell’immigrazione e della devastazione dell’America; mentre Harris è stata Harris: puntuale, precisa, sorridente ma tagliente, con l’abilità di colpire alla giugulare, di cui aveva già dato ampia prova negli anni passati, quando conduceva, da procuratrice della California, gli interrogatori in tribunale o, da senatrice, partecipava alle commissioni di inchiesta.
Probabilmente si poteva prevedere che sarebbe andata così anche nel dibattito di Philadelphia. Avevamo letto che Harris si era chiusa per giorni in un luogo segreto di Pittsburgh, con i suoi consiglieri, per prepararsi all’incontro con uno sparring partner che somigliava a Trump ed era vestito come lui, cravatta rosso acceso compresa. Aveva passato al setaccio le possibili domande, i tranelli, i talking points; si era letta con cura i vari dossier, mandando a memoria dati, cifre e proposte. Una preparazione disciplinata e scrupolosa, come nel carattere della persona, la cui conseguenza è stata che i controlli fattuali (fact-checking), eseguiti dopo il dibattito sulle sue affermazioni, hanno portato a evidenziare un solo dato falso fornito da lei: quello sulla disoccupazione lasciata da Trump, che non era la più alta dalla Grande depressione – come ha detto Harris –, ma anzi era scesa rispetto al record di due anni prima.
Quanto a Trump, si sa che l’uomo è scarsamente disciplinato e, a detta dei suoi consiglieri ed ex ministri, ha un livello di attenzione piuttosto basso. Fa affidamento soprattutto sul suo intuito ed è convinto, realmente convinto, di essere un genio. Così è arrivato al dibattito con una sola idea fissa: l’immigrazione clandestina che porta “milioni su milioni” (a un certo punto ha detto ventuno milioni: in realtà sono circa la metà) di stranieri, “per lo più criminali e malati di mente”. Argomento che ha ripetuto più volte; anche quando non c’entrava nulla con le domande dei moderatori, lui finiva sempre lì. Per il resto ha inanellato la solita serie di falsità ed esagerazioni: qualunque cosa è stata fatta durante la sua presidenza è stata “la più grande della storia” e qualunque cosa è stata fatta durante la presidenza Biden “la peggiore di tutti i tempi”. Il risultato è stato che i fact-checkers professionali hanno identificato almeno trentatré bugie principali, oltre a un centinaio di affermazioni difficilmente valutabili per la loro vaghezza o approssimazione.
Ora, i dibattiti presidenziali non sono l’occasione migliore per esporre analiticamente i programmi di un candidato. Non è questo che il pubblico vuole o che si aspetta. I dibattiti servono soprattutto a valutare il carattere di ciascun candidato, la sua capacità di resistere, e rispondere, al fuoco nemico. Alla fine, si valuta a spanne la fiducia che si può avere in lui per realizzare il programma che promette. Se, nel caso di Harris, questo test è andato, a seconda dei punti di vista, meglio o più o meno come ci si aspettava, confermando tratti già noti del suo carattere, nel caso di Trump è andato decisamente peggio di quanto ci si sarebbe aspettati. Non per le solite falsità o esagerazioni (l’uomo è già ampiamente noto per la sua retorica iperbolica), ma per il come le ha dette.
Già si era capito qualcosa, a luglio, dal discorso di accettazione della candidatura alla convention repubblicana: un’ora e mezza di farfugliamenti a tratti mesti a tratti irosi, semplicemente senza né capo né coda. La sua evidente incapacità di articolare frasi compiute nel dibattito, passando da un argomento all’altro, da un inciso all’altro, dall’esaltazione della propria grandezza alla malvagità dei suoi avversari (Harris e Biden, e l’odiata Nancy Pelosi, altro chiodo fisso), con dentro una rabbia appena contenuta, testimonia dell’abilità di Harris nel provocarlo, gettandogli un’esca o agitando un drappo rosso, così da farlo cadere in trappola e spingerlo ad affermazioni risibili. (Vedi due momenti clou del dibattito, particolarmente esilaranti: la storia dei cani e gatti rapiti e mangiati dai cattivissimi immigrati; e l’occasione che un imbelle Trump ha dato a Harris: “Ma come, parli tu di criminali? Proprio tu che sei stato condannato e incriminato” ecc. ecc.).
Ma il farfugliare trumpiano ha anche messo in evidenza un aspetto della sua persona che, finché Biden era stato il candidato democratico, era passato in secondo piano di fronte ai tratti evidentemente senili dell’anziano presidente: il fatto che anche Trump è un signore anziano di 78 anni, che con la sua incapacità a concentrarsi, con gli improvvisi scatti di rabbia, il continuo autoglorificarsi e la propensione a ripetere sempre le solite storie, mostra tutti i segni di un’età avanzata e di un possibile deterioramento mentale. Si dirà: Trump è sempre stato così, uno sbruffone megalomane e iracondo – ma ieri sera ha dato l’impressione di essere molto avanti giù per quella china. Insomma, è una minaccia per la democrazia non solo perché, con tutta evidenza, è un aspirante dittatore, ma perché proprio non ci sta con la testa.
Il primo e forse, a questo punto, unico dibattito presidenziale ha rappresentato una vittoria per Harris e una sconfitta “devastante” (così l’ha definita il guru democratico David Axelrod) per Trump. Devastante quanto era stato quello di giugno per Biden. Allora il presidente-candidato aveva perso con il 33% contro il 67% di Trump. Quasi la stessa percentuale con cui Trump ha perso, questa volta, contro Harris.