La constatazione è ormai di scuola. Il Paese guida del capitalismo globale si sta riducendo a uno di quei rissosi saloon disseminati nella lunga pianura che congiunge l’Est all’Ovest, o a uno di quegli staterelli centroamericani in cui la Cia esercitava i suoi esportatori di democrazia. L’attentato a Trump sembra davvero il colpo di teatro di una pièce di terz’ordine. Con il candidato democratico ormai alle corde, il problema dei repubblicani era cementare il mosaico interno attorno all’impresentabile e pregiudicato miliardario di New York.
Il colpo di striscio sul lobo dell’orecchio destro ha chiuso la partita, cancellando ogni macchia giudiziaria e santificando il capo della tribù più oltranzista dell’Old Party. Non pensiamo che sia stata una farsa. L’America ormai è una fabbrica di squilibrati che aprono e chiudono le proprie storie con un’arma in mano. Per un’astuzia della storia, Trump ha incontrato proprio uno dei profili che lui aveva evocato più volte: un insignificante giovane della malmostosa provincia che scambia la sua vita per un attimo di celebrità.
Ma il punto ora è capire come aggiornare le mappe dei poteri e decifrare la tendenza nello scontro geopolitico. Dobbiamo capire da dove sia partita quella pallottola e chi abbia realmente colpito.
Negli Stati Uniti, il dualismo fra due entrambi unfits (inadeguati, come il “New York Times” ha definito esplicitamente il candidato repubblicano, facendo intendere che non da meno sia il presidente uscente) pone inesorabilmente il tema di cosa e come il potere politico stia mutando alla testa dell’impero. Siamo all’epilogo di un lungo processo, che potremmo datare proprio con il cambio di secolo, il fatidico 2000, quanto la talpa digitale cominciò a corrodere le gerarchie tradizionali, attaccando il primato verticale del dispositivo militare-industriale statunitense, mediante un decentramento di saperi e dotazioni che accorciavano le distanze fra il primo e terzo mondo. L’attacco alle Torri gemelle fu il simbolo di quel processo, con la messa in campo di abilità e competenze adottate dal gruppo Bin Laden, impensabili solo qualche anno prima.
La contraddizione che ha caratterizzato questo primo quarto di nuovo secolo sta proprio nel ruolo dell’apparato amministrativo come impresario e ordinatore dell’imperialismo digitale, in cui le “tecnologie della sorveglianza”, come le ha definite Zuboff, dilagavano nel mondo rafforzando il dominio di controllo del sistema, e, al tempo stesso, proprio le forze che costituivano il nuovo patto fra capitale e Stato, nel dominio digitale, scatenavano un attacco contro ogni idea di spazio pubblico autonomo e prescrittivo.
La Silicon Valley – emblema di una progressione tecnologica che vede oggi, molecolarmente, ogni singolo abitante del pianeta, esposto a un assedio assillante al suo cervello mediante i dispositivi di profilazione intensiva, predisposti dai modelli di intelligenza artificiale – si sta svincolando da ogni vincolo istituzionale, ridisegnando grafi relazionali nell’ambito del Paese, e precostituendo forme alternative di ogni segmento economico e sociale sul mercato globale. La nuova economia neurale si basa sulla connessione di poderosi data-base, in cui confluiscono comportamenti, caratteristiche ed emotività di intere regioni continentali, processati ed elaborati da una potenza di calcolo ormai sempre più prossima al salto quantico.
Da questo abbraccio si sta separando, con non poche contorsioni, il nuovo secondo mondo, cioè quelle piattaforme, prevalentemente autocratiche o teocratiche, che vedono Paesi come Cina e Russia convergere con i nazionalismi islamici e asiatici. In questo secondo mondo digitale è lo Stato come grande fratello ad assumere il ruolo di gestore della sorveglianza, intollerante di ogni forma di decentramento.
I conflitti attuali avvengono intorno al controllo del motore neurale del pianeta, ossia del sistema di calcolo, addestrato dai dati planetari. In questo, il collasso politico dell’Occidente, che si trova senza classe sociale di riferimento, senza più una borghesia elitaria che orienti le borghesie nazionali, lascia del tutto scoperta proprio la contesa geopolitica. La probabile vittoria di un Trump, santificato dall’attentato, dinanzi a un Partito democratico, che misura ormai il limite dell’egemonia culturale dei ceti mercantili e tecnologici, ratificherà il ridimensionamento dello Stato imperiale, che mirerà a spartirsi le rendite di posizione dei propri centri economici e finanziari, ma dovrà delegare alle multinazionali computazionali le forme di controllo e di combinazione sociale. Sostenibilità e partecipazione, le due carte che ha provato a giocare il capitalismo democratico, ossia l’alleanza di Wall Street con l’ala libertaria delle tecnologie, non sembra avere dato i frutti sperati.
L’Europa, per parte sua, galleggia in un dirigismo senza diretti, ossia senza forze da dirigere, data l’assenza di campioni continentali sui principali scacchieri di competizione. Si delinea così un nuovo atlante geopolitico, dove, a una convergenza fra totalitarismi asiatici e isolazionismo sovranista occidentale – Trump e la destra europea –, potrebbe corrispondere una relazione fra il partito di una neoglobalizzazione che miri a uno scenario in cui gli utenti siano partner e complici delle nuove tecnologie antropomorfiche, quelle che riproducono la potenza neurale umana. Un disegno che potrebbe contare sull’integrazione di miliardi di collaboratori, per rendere gestibili e convenienti i mastodontici processi di addestramento e di sviluppo dei nuovi algoritmi.
Indicativa la posizione di uno degli astri nascenti del mondo digitale, Fei-Fei Li, giovanissima guru digitale, che, con anni di lavoro e una vasta mobilitazione di decine di migliaia di giovani come lei, ha inventato le forme di riconoscimento facciale e di classificazione automatica dei video che, nel suo nuovo libro Tutti i mondi che vedo, spiega come “la pressione della competizione debba essere temperata dal potere collettivo della collaborazione”.
Sovranismo autoritario vs. neoglobalizzazione decentrata sembra essere lo scontro dei prossimi anni, in cui la politica come protagonismo di uno spazio pubblico, che sia base e obiettivo di una sinistra del Ventunesimo secolo, deve guadagnarsi il proprio posto innestando conflitti sociali sull’unica forma di relazione che possa sovvertire l’ordine delle cose, cioè il potere dei calcolanti, siano essi proprietari o apparati statali.