Tempo di bilanci, l’esame di maturità sta finendo, in alcuni casi è già finito. Gli studenti, dopo immani fatiche, sono, chi più chi meno, in vacanza, o a studiare per le prove di ingresso all’università. Proviamo, da un piccolo e ristretto osservatorio, a fare bilanci. C’è una ritualità che accompagna la maturità.
Il 17 giugno, alle 8,30, in tutte le scuole d’Italia si sono dati appuntamento in riunione plenaria presidenti e commissari delle varie commissioni per concertare gli aspetti organizzativi relativi agli esami. Commissari esterni e commissari interni si incontrano, si scrutano, parlano tra loro e osservano gli sguardi, le parole, la postura dei loro colleghi. In questo andirivieni, su e giù per le scale, di gente che si conosce, si riconosce, si saluta, c’è un momento in cui il presidente riunisce la sua commissione intorno a un tavolo nella “riunione plenaria”. Si parla di griglie di valutazione, tabelle di conversione dei voti, criteri di attribuzione del bonus e di conduzione del colloquio orale, situazione delle varie classi, calendario ecc., insomma si prepara, con una certa precisione, tutto ciò che dopo due giorni scandirà la vita dei commissari e delle frotte di studenti che diventeranno maturi.
Prima prova. Parte il tamtam dell’incredibilmente facile, incredibilmente scontata, incredibilmente vetusta, incredibilmente bella. Ognuno ha espresso la sua opinione sulle tracce della prova di italiano. Eh sì! Perché, siccome tutti siamo italiani, tutti possiamo esprimere pareri tecnici, emotivi, di gusto su ciò che si studia a scuola e su ciò che si scrive a scuola – ma questa è un’altra storia. Seconda prova. Nelle varie scuole gli studenti si cimentano con la prova caratterizzante l’indirizzo del proprio corso di studi: la prova di greco al classico, di matematica allo scientifico ecc. Si prosegue con la correzione degli scritti. Naturalmente occorre che tutta la commissione trovi un equilibrio speciale per potere decidere, nel giro di venti o trenta minuti, com’è stata quella prestazione. È difficile scorrere la penna su quegli elaborati consapevoli che un ventesimo in più o in meno deciderà le sorti dello studente.
Iniziano gli orali. Ogni giorno cinque candidati, il cui colloquio dura circa un’ora, sfilano davanti alla commissione. Il candidato viene chiamato, e viene invitato a sedersi al centro. Visualizza un’immagine sulla lavagna multimediale, sul tavolino ha un foglio, gli vengono dati pochi minuti per orientarsi a risolvere un problema: come collegare lo spunto offerto da quel testo o da quella immagine con argomenti trattati nel proprio percorso scolastico. Studenti e studentesse emozionati, con gli occhi di chi visibilmente ha dormito poco o nulla, intenti a pensare, prima di varcare quella soglia, allo spunto che capiterà loro, si fanno tante domande, e non hanno pace fino a quell’ora segnata e indicata nel calendario. E finalmente arrivano le lacrime della tensione che se ne va, quando un’altra fa capolino tra i vapori della mente, quella del “toto voto”. Pubblicazione esiti. Gioie, dolori, soddisfazioni e ripensamenti, amarezze e delusioni… tanti sentimenti affollano la mente di docenti e studenti.
Cosa resta della maturità? Ma questo esame funziona davvero? Mai come quest’anno, in era post-Covid, ci sono stati docenti motivati a espletare il loro ruolo nella maniera più conservatrice possibile. Abbiamo visto gente rinnegare e non considerare l’ordinanza ministeriale, che recita “colloquio interdisciplinare”, e scambiare il colloquio con una interrogazione in piena regola. Difficilmente, durante l’anno scolastico, si dà una reale preparazione per sostenere un colloquio interdisciplinare, sia perché i docenti non riescono a superare una visione individuale e parziale della propria disciplina, sia perché manca un lavoro collegiale fra gli insegnanti. Paradossalmente, pretendiamo dagli studenti un lavoro che noi, in primis, per tanti motivi, non riusciamo a fare. L’interdisciplinarità richiede una forte collaborazione tra i docenti, un elevato livello di organizzazione e una lunga programmazione.
E invece ci sono i mille progetti, il capolavoro, l’orientamento, tutte cose che si sono rivelate inutili, fra l’altro. Il ministero emana tanti compiti da eseguire. E poi il grande problema: poco tempo, tutto di corsa, tutto veloce. Poca attenzione ai singoli consigli di classe. Si decide d’imperio quali sono le materie interne, spesso non amate dagli studenti, insieme ai rispettivi commissari. E si vede: candidati che hanno parlato di contenuti lontanissimi e non pertinenti allo spunto offerto, candidati che hanno ignorato palesemente i collegamenti più logici, perché quelli più logici loro non li avevano ripassati, o forse nessuno li aveva preparati.
Abbiamo visto docenti tentare di esercitare una forma di “potere” sulla determinazione del voto da attribuire al candidato, come se quella forma potesse modificare l’incidenza del ruolo dell’insegnante nella scuola e nella società attuali. Vi è una frustrazione diffusa tra gli insegnanti, esasperata da una condizione sociale conflittuale e di stress. Questo ha portato a una rivendicazione preoccupante e di rivalsa contro gli studenti.
Il rito della maturità che stiamo celebrando non funziona. Interroghiamoci seriamente sugli obiettivi da raggiungere. Bisognerebbe ripensarlo e farlo diventare un’occasione per valorizzare davvero i talenti degli studenti. Il cambiamento dovrebbe cominciare prima. Nella costruzione di una scuola che quotidianamente sappia riconoscere e coltivare le passioni, gli interessi e le curiosità, e ritorni a dare spazio e tempi lunghi alla didattica. Perché l’apprendimento non si fa con l’intelligenza artificiale e il metaverso.
Se pensiamo alla maturità come “rito di passaggio” e alla certificazione delle competenze effettivamente possedute, in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, che sancisca la fine del secondo ciclo di istruzione, potremmo pensarlo come una discussione, un lavoro realizzato nelle materie caratterizzanti l’indirizzo. Attraverso una seria, collegiale e rigorosa preparazione. Potrebbe trattarsi di qualcosa di simile alla discussione della tesi di laurea al termine del percorso universitario, occasione nella quale nessuno si scandalizza se non vi sono bocciati. Potrebbe essere una procedura distinta rispetto alla conclusione del percorso della scuola secondaria di secondo grado. Il mancato superamento dell’esame non dovrebbe portare a ripetere la classe quinta; essere ripetibile in sessioni periodiche (almeno semestrali), in modo da permettere a chi non ha raggiunto la certificazione desiderata di prepararsi e ritentare. Insomma, sono solo ipotesi. I tempi per riflettere, ricercare, discutere e assumere decisioni produttive per i giovani e per le loro prospettive future ci sono, se ci sono le scelte politiche. Perché il sistema di istruzione ha bisogno di decisioni meditate.