C’è un solo responsabile di ciò che era prevedibile e previsto, e alla fine si è anche realizzato. È Emmanuel Macron, con la sua scommessa ad alto rischio, ma non solo: con la sua politica centrista che dura ormai da sette anni. A parte le ben note considerazioni sociologiche – l’avanzata dell’estrema destra a causa di un malessere di lunga data, per via delle frizioni intercomunitarie (si ricordi che la Francia è il Paese europeo con la più ampia presenza musulmana), o per via del risentimento della provincia contro la capitale, di cui un aspetto furono i “gilet gialli” di qualche anno fa –, a parte tutto ciò, è la stessa scomposizione del panorama politico francese, con la spaccatura a destra del Partito socialista, operata inizialmente dal macronismo, e poi con la cooptazione sempre più marcata di un personale politico proveniente dalla destra ex gollista, è questo scombussolamento opportunistico del sistema che, da un punto di vista strettamente politico, ha condotto il Rassemblement national al risultato odierno, vicino al 34%.
L’unico effetto positivo ottenuto da Macron, con la repentina scommessa delle elezioni anticipate, è stato quello di un incremento di venti punti in percentuale della partecipazione: in Francia ha votato più del 67% degli aventi diritto. È però anche la prova provata che il moderatismo centrista non tiene: i molti voti mancanti alle legislative della scorsa volta (2022) erano quelli più radicali, a destra o a sinistra. Gli elettori ritornano ai seggi elettorali quando c’è una battaglia da combattere, e quando gli schieramenti e i termini della partita sono chiari. Il macronismo, invece – dopo avere minato il sistema politico precedente, basato bene o male su un’alternanza destra/sinistra –, non è riuscito a rimotivare i francesi in alcun modo. Almeno fino a oggi, quando, al prezzo di diventare pressoché inessenziale nel gioco complessivo, ha dato spazio a una rinnovata contrapposizione tra destra e sinistra.
Parliamoci chiaro: le sinistre più o meno unite (quella del “fronte popolare” è soltanto un’etichetta, e bisognerebbe usare piuttosto il termine di “cartello elettorale”) sono andate bene, arrivando al 28%, ma l’obiettivo di fermare l’estrema destra non è stato raggiunto. Potranno servire i ballottaggi di domenica 7 luglio, nelle varie circoscrizioni, a evitare almeno la maggioranza assoluta lepenista? La partita è aperta. Ma è necessario che si formi quel “fronte repubblicano” per il quale si sta spendendo da giorni il quotidiano “Le Monde”. In altre parole, dove i ballottaggi sono “a tre” (talvolta perfino “a quattro”: dipende dal numero di voti raggiunti al primo turno dalle singole candidature), i candidati con minori chance devono ritirarsi a favore di quelli meglio piazzati per battere l’esponente dell’estrema destra. Si chiama desistenza, ed è parte di un gioco molto locale, nel senso che dipende dalle singole personalità nei diversi collegi uninominali, nei quali si passa in maniera maggioritaria, spesso soltanto per pochissimi voti.
L’indicazione del cartello delle sinistre in tal senso è molto chiara, confermata anche da Mélenchon: i loro candidati in terza posizione si ritireranno per far sì che i voti si concentrino sull’esponente centrista o anche, eventualmente, su quello di destra moderata con maggiori possibilità di spuntarla (ricordiamo che, sia pure ridotta, esiste ancora una componente ex gollista che non accetta di fare gruppo con la destra lepenista). Ma i candidati del blocco macroniano faranno lo stesso? O si comporteranno a geometria variabile, magari escludendo dalla desistenza quelle situazioni in cui le sinistre sono rappresentate da un seguace di Mélenchon, e favorendo in questo modo la conquista di una maggioranza assoluta da parte di Le Pen e dei suoi?