Cresce un movimento transfemminista legato all’urbanistica, che cerca di immaginare uno spazio urbano diverso, basato sulla libera circolazione dei corpi. La nozione di riqualificazione urbana, riducendo la complessità della convivenza a problemi di ordine pubblico, ha spesso spostato l’attenzione dalla protezione del cittadino alla criminalizzazione delle marginalità sociali. Nella progettazione tradizionale, infatti, vengono spesso strumentalizzati i concetti di sicurezza e decoro per alimentare stereotipi e stigmatizzazioni sociali, promuovendo politiche restrittive anziché pratiche che tutelino le comunità di abitanti. Sono alcune delle tematiche affrontate dalla corrente di studi di genere a cui appartiene Serena Olcuire, ricercatrice in Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica alla Sapienza di Roma. Olcuire ha incentrato la sua ricerca sulla dimensione di genere nelle politiche pubbliche, approfondendo concetti come quelli di sicurezza, degrado e decoro. La sua riflessione nasce dalla necessità di partire dai corpi nello spazio, piuttosto che dalla visione della città come un organismo malato bisognoso di rigenerazione.
Nel tuo libro, Indecorose. Sex work e resistenza al governo dello spazio pubblico nella città di Roma (edito da Ombre Corte, 2023), hai messo sotto osservazione le politiche di gestione della prostituzione outdoor, interpellando le soggettività coinvolte per comprendere, dietro il loro dislocamento forzato, la geografia della marginalizzazione. Com’è nata la scelta della tematica: indagare il rapporto tra sex work e spazio urbano?
Da architetta urbanista studio la città, le dinamiche di trasformazione urbana e le politiche pubbliche. Durante il dottorato ho scelto di occuparmi delle geografie del sex work. La ricerca nasceva da un intreccio di percorsi artistici e politici precedenti, e dalla messa in discussione della questione del decoro. Ogni tipo di politica di gestione dello spazio urbano in quel momento sembrava appellarsi a questo concetto. Non riuscivo proprio a capire perché i corpi delle modelle seminude sui cartelloni pubblicitari fossero considerati decorosi, e quindi potessero occupare lo spazio pubblico, mentre quelli delle sex worker, che lavoravano in strada, no. Quelli erano indecorosi. Non riuscivo a comprendere questa ambiguità: quindi ho scelto di portare avanti una ricerca sul tema. Considerando che facevo il dottorato presso il Dipartimento di Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica, è stata una sfida, sia per me sia per i miei interlocutori. Ho proposto di osservare le politiche dello spazio pubblico e, contemporaneamente, di interpellare le sex worker e le altre soggettività coinvolte per capire quali fossero le conseguenze di tali politiche.
Quali sono le politiche pubbliche in questo senso?
Siamo fondamentalmente un Paese abolizionista e la legge di riferimento è ancora la Merlin (1958), quindi in Italia il sex work non è illegale. Pur non essendo in alcun modo regolamentata la transazione, è possibile vendere una prestazione sessuale. Perciò quando i sindaci o gli amministratori locali vogliono rimuovere il fenomeno del sex work dalle strade delle città italiane devono inventarsi degli escamotage legali. Inventare delle norme ad hoc comporta un grande esercizio di creatività. Tra la fine degli anni Novanta e la prima decade dei Duemila, si facevano soprattutto delle ordinanze sindacali, adesso ci sono nuovi strumenti come quello del Daspo urbano (2017). Non si può dire espressamente che non si possono vendere le prestazioni sessuali, ma si può vietare di manifestare l’atto in sé o di indossare degli abiti troppo espliciti. Queste definizioni di cosa possiamo o non possiamo fare nello spazio pubblico hanno una forte connotazione di genere e diventano estremamente problematiche quando quanto riguardano i corpi delle donne cis o trans, e il modo in cui possono o meno presentarsi nello spazio urbano.
Verrebbe da pensare che la prostituzione outdoor sia una situazione scomoda e drammatica per le persone che la vivono. Perciò le politiche di gestione vengono considerate spesso come positive dall’opinione comune. Che ne pensi?
Le persone che ho conosciuto hanno sfruttato la possibilità di lavorare in strada quando erano in una situazione molto precaria della loro vita, per esempio quando erano appena arrivate in Italia o non avevano ancora una posizione abitativa stabile. Una scelta dovuta al non poter lavorare in casa. Quando hanno potuto, hanno deciso di spostarsi all’interno delle mura domestiche. Non possiamo dire, però, che la strada sia necessariamente più insicura. Per esempio, la strada talvolta fornisce una sorta di rete di sicurezza, grazie alla compresenza di altre colleghe o di altre persone. Si innescano spesso dinamiche positive di protezione di gruppo. Non credo che la dimensione della strada sia quella ottimale, ovviamente, anzi, auguro a tutte le sex worker di lavorare nella situazione che ritengono più comoda. Ma ai fini della mia ricerca è stato importante, perché la presenza sulla strada ci sfida, sfida la cittadinanza benpensante. La dimensione dello spazio pubblico ci obbliga ad avere a che fare con quei fenomeni che riteniamo disturbanti, e questo ci ricorda le contraddizioni della nostra società. Come appunto quelle legate al sex work.
Qual è il rapporto tra queste persone e lo spazio urbano? Quali tematiche sono state centrali per la ricerca?
Ho cercato di confrontarmi con le varie soggettività coinvolte, per prima cosa con le sex worker. In particolare, con una delle protagoniste del libro, Paulette, abbiamo ricostruito la sua storia abitativa, tutti i luoghi in cui ha vissuto e lavorato. In queste lunghe sessioni provavamo a ricordare e a descrivere che cosa le succedeva nello spazio pubblico: come le sue compagne si riorganizzavano in base a ciò che succedeva – retate della polizia, rivolte dei residenti – sia cercando di capire i loro spostamenti sia quali tattiche di resistenza mettevano in atto. Spesso il dibattito sulla prostituzione è schiacciato sui temi della tratta, del traffico di esseri umani e della regolamentazione o meno. Per me era importante aggiungere che anche le politiche di governo dello spazio pubblico o le politiche abitative hanno un impatto sulla vita delle sex worker. E chi se ne occupa dovrebbe rendersene conto. Se pensassimo, per esempio, a una politica abitativa mirata, facilitando l’accesso alla casa, miglioreremmo le loro condizioni – come del resto quelle di tante altre soggettività.
La composizione urbana del sex work è molto mutata, negli ultimi vent’anni, sia per l’uso crescente del web, che ha scardinato la presenza sul territorio, sia perché schiacciata dalla gentrification: dai centri storici si è spostata sempre più nelle zone isolate e periferiche, lontane dall’occhio benpensante. Come si potrebbe ripensare, da architetto, un’area urbana transfemminista, che rispetti il rapporto tra corpo e spazio pubblico?
Nel libro ho provato a descrivere le pratiche messe in atto in altre città europee per gestire il fenomeno del sex work. In alcune abbiamo delle strutture chiuse, in altre si sceglie di destinare delle zone di tolleranza in luoghi lontani dai quartieri residenziali, dove le lavoratrici possano accedere anche a servizi di sostegno di cui possano avere bisogno, i corrispondenti delle nostre unità di strada. Anche in Italia c’è stata la proposta di questa modalità, che è stata chiamata zoning, sperimentata nel Comune di Venezia. Per ripensare lo spazio del sex work, da un posizionamento transfemminista, dobbiamo iniziare una riflessione collettiva: interpellare le soggettività coinvolte, chiedere quali sono le loro necessità, immaginare dei processi di co-progettazione. In occasione di alcuni laboratori di progettazione all’università, a cui ho avuto modo di partecipare, abbiamo immaginato spazi di servizi e sostegno in cui fosse garantito il presidio di soggettività transfemministe, consapevoli di necessità e bisogni delle sex worker: per esempio, la compresenza di funzioni attive di notte, come panetterie o farmacie, e servizi di supporto, per ripararsi dal freddo o per avere momenti di socialità condivisa. Luoghi dove la sicurezza sia garantita dal presidio di altre persone e altre funzioni, non necessariamente dalle forze dell’ordine.
Molte di queste persone sono straniere e in condizioni precarie. Quanto pensi che le politiche migratorie rientrino nella questione?
La dimensione del sex work è molto legata a quella della migrazione, la maggioranza delle persone che lavorano in strada non hanno la cittadinanza italiana. Ma tratta e traffico sono due cose molto diverse. La tratta è un crimine contro la persona, e come tale deve essere perseguita, mentre il traffico è un reato contro lo Stato. Nel caso del traffico, si facilita l’ingresso di un(a) migrante per vie illegali, ma l’operazione viene fatta con il consenso e il desiderio della persona coinvolta. Se volessimo effettivamente liberare le sex worker (e non solo) da una dinamica di dipendenza o di oppressione dovremmo innanzitutto ridiscutere le politiche di difesa dei confini nazionali, cominciare a rivedere le regole con cui permettiamo o meno alle persone di entrare nel nostro Paese.
Si parla spesso di sfruttamento. Come si fa a rapportarsi all’argomento senza avere un atteggiamento paternalistico?
Il tema del sex work è scivoloso perché è difficile parlarne senza parlare di sfruttamento e coercizione. Ovviamente, da architetta, non era questo il focus della mia ricerca; ma ci tengo a ricordare che il sex work comprende un amplissimo ventaglio di pratiche che vedono diversi livelli di accordo e consenso da parte della persona che lo esercita. Non è un ambito in cui si può distinguere chiaramente tra bianco e nero, i confini sono molto sfumati. Le persone che ho incontrato non erano sfruttate né avevano evidenti rapporti di potere con altri. In quanto migranti, però, erano passate per il fenomeno del traffico, cosa che le aveva rese illegali una volta giunte qui. Uno degli effetti più gravi della rimozione delle sex worker dallo spazio pubblico è la recisione dei legami e delle relazioni sociali che si creano. Per me era importante provare a raccontare la dimensione delle sex worker nel loro essere vere e proprie abitanti della città, che, in quanto tali, stabiliscono delle relazioni con l’ambiente intorno a loro, importanti, come per ognuna di noi, per un percorso di autodeterminazione. Chi governa le città spesso le considera pedine da spostare dove daranno meno fastidio. Ciò che fanno le politiche pubbliche è delocalizzare le persone da una parte a un’altra della città, senza calcolare l’impatto che questo ha sulle loro vite.
Come si affronta la relazione tra spazio urbano e genere?
È un tema gigantesco, che è possibile declinare secondo una miriade di intersezioni. Con alcune compagne abbiamo provato a identificare tutte le modalità in cui lo spazio urbano esercita una violenza di genere strutturale e a cercare di capire come, invece, possa favorire percorsi di autodeterminazione. Da quel lavoro collettivo è nato un primo libro, La libertà è una passeggiata (IAPh Italia, 2019, ndr), in cui sono già presenti i temi del decoro e del degrado, della sicurezza percepita e non, ma c’è anche una dimensione più ampia di studio e di pratiche collettive, che usano un approccio femminista all’osservazione critica della città. Ed è da poco uscito Bruci la città (pubblicato nel 2023, ndr), una riflessione sulla città transfemminista, portata avanti con Federica Castelli e Giada Bonu.