Se c’è una guerra, anzi se ci sono guerre che non fanno notizia, queste sono quelle che sconvolgono la Repubblica democratica del Congo. Ne fa cenno ogni tanto papa Francesco, com’è accaduto ancora all’Angelus di domenica scorsa, subito dopo i massacri nell’est del Paese, nel Nord del Kivu. Il Paese ha un triste primato: dall’indipendenza (1960) non ha mai conosciuto un solo giorno di pace totale. Dalla ribellione del Katanga, fino all’occupazione permanente dell’est da parte di truppe e movimenti filo-ruandesi a metà degli anni Novanta, attraverso due conflitti (1996-97, quello che cacciò il presidente Mobutu, e 1998-2003), il Paese ha conosciuto milioni di morti – si stima fino a dieci milioni di vittime, in massima parte civili – e una quantità di sfollati interni; l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, alla fine dello scorso anno, li ha stimati in sette milioni, di cui 5,6 nella regione orientale.
È da decenni che nell’est si concentrano i conflitti maggiori. Dall’inizio di giugno, gli attacchi delle Forze democratiche alleate (Adf) – un gruppo armato di origine ugandese, composto principalmente da musulmani, che opera da oltre vent’anni nel Nord del Kivu (regione orientale del Congo) – hanno fatto oltre centocinquanta morti tra la popolazione civile. Il gruppo si è radicalizzato da una decina d’anni e si è affiliato allo Stato islamico. Ma l’Adf è solo uno dei tanti gruppi armati che si muovono nella regione, e che le forze armate congolesi dovrebbero contrastare, senza riuscirvi. Si pensi all’M23, gruppo di miliziani congolesi, per la maggior parte di etnia tutsi, quella al potere in Ruanda, sostenuti da quest’ultimo.
Le ragioni dello stato di guerra permanente e lo scontro tra gruppi armati sono molteplici, e tutte evidenti. La regione è ricca di minerali – dall’oro al rame, al cobalto –, e più di tutti delcoltan, il minerale indispensabile per far funzionare i nostri smartphone e, più in generale, i dispositivi elettronici. Questa ricchezza strategica ha scatenato l’appetito dei Paesi vicini e quello di gruppi multinazionali. Le stesse autorità congolesi, centrali e regionali, si sono accomodate a questo gioco, partecipando largamente all’accaparramento e alla spartizione delle ricchezze, provocando un’instabilità permanente, regolata attraverso una conflittualità continua. La popolazione cerca di sottrarsi alla violenza cercando un’effimera alleanza con le milizie di turno, restandone però la vittima principale.
L’Uganda e il Ruanda giocano il ruolo maggiore. Il più attivo è senza dubbio il minuscolo Ruanda, che ha visto la sua storia intrecciarsi con quella della regione orientale della Repubblica democratica del Congo. Questa ha accolto, infatti, la popolazione ruandese di origine hutu, in fuga dopo essere stata accusata di avere programmato e messo in atto il genocidio della minoranza tutsi nel 1994: minoranza che ha poi preso il controllo del Ruanda con Paul Kagame, ancora saldamente in sella a Kigali. Con la scusa di perseguire i criminali hutu, e senza tenere conto del fatto che la stessa minoranza tutsi si è macchiata di crimini orribili, il Ruanda è senza dubbio la forza più presente in Congo. Kigali cerca di estendere la sua influenza nella regione, schiacciata com’è tra Paesi più grandi e più ricchi. Non è estraneo alla strategia ruandese il sogno di annettersi in permanenza una parte dell’est congolese. È all’interno di questa strategia continentale che il Ruanda ha accettato di firmare l’accordo con Londra per accogliere i profughi cacciati dalla Gran Bretagna. Vuole porsi come una piattaforma strategica degli scambi nell’Africa australe, approfittando di una relativa stabilità politica sotto il pugno di ferro di Kagame.
D’altronde al Congo mancano gli strumenti politici per contrastare l’influenza straniera. Lo dimostra l’ennesima farsa delle elezioni legislative e presidenziali del dicembre scorso, che hanno confermato Félix Tshisekedi a larga maggioranza (73%), al termine di un voto contestatissimo, com’era accaduto la prima volta, nel 2019. Dopo diversi rapporti negativi di osservatori internazionali indipendenti, presenti al momento del voto, neppure le Chiese ne hanno benedetto l’esito. In un rapporto reso noto questa settimana, la Chiesa cattolica e quella protestante hanno prodotto una denuncia circostanziata e senza appello del sistema elettorale, caratterizzato da irregolarità, compravendita dei voti e corruzione.
La precarietà politico-istituzionale è illustrata anche dalle difficoltà nell’insediamento del nuovo governo, affidato, a inizio aprile, per la prima volta a una donna, Judith Suminwa Tuluka, e varato solo a fine maggio, cinque mesi dopo le elezioni. Nel frattempo, è intervenuto un effimero tentativo di colpo di Stato, condotto, il 19 maggio scorso, da un ex militare dell’esercito regolare, Christian Malenga, uomo d’affari e politico, alla testa di un minuscolo partito con base negli Stati uniti. Malenga ha assaltato con un commando la residenza del candidato alla presidenza dell’Assemblea nazionale, Vital Kamerhe. Prima di essere abbattuto, Malenga aveva brandito la bandiera dello Zaire, vecchia denominazione del Paese tra il 1971 e il 1997, sotto la dittatura di Mobutu (1965-97). Vital Kamerhe è stato eletto, tre giorni dopo, alla testa del parlamento, che una settimana fa ha votato, a larghissima maggioranza, la fiducia al nuovo governo, formato da più di cinquanta membri. Enormi le sfide a cui sono attesi: dalla sicurezza, in primo luogo, al lavoro, alla diversificazione dell’economia, troppo dipendente dal settore minerario, quindi dalle influenze straniere.