Negli anni Sessanta e Settanta si poteva dire, senza tema di smentite, che l’Italia fosse il Paese più “comunista” dell’Occidente capitalistico. Un’ideologia rappresentata, nelle sue diversissime declinazioni, dal Partito comunista fino ai gruppi più estremi e, ahinoi, al terrorismo rosso. Si guardava al resto dell’Europa – dove la sinistra era rappresentata essenzialmente dai partiti socialisti e socialdemocratici – con una certa aria di sufficienza, che, con il senno del poi, non aveva alcuna ragion d’essere, visto il fallimento totale di quella cultura politica. Svezia, Danimarca e Finlandia, senza dimenticare la Norvegia fuori dal processo di integrazione europea, erano diventati, grazie alle sinistre locali, Paesi con un welfare avanzatissimo e con una forte attenzione al Sud del mondo – vedi soprattutto quella del premier svedese Olof Palme.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta: quei modelli sono stati quanto meno ridimensionati e la destra moderata, e recentemente anche quella estrema, sono arrivate nella “stanza dei bottoni”. Nelle recenti elezioni europee, che hanno visto la Spd tedesca uscire con le ossa rotte dalla consultazione elettorale (vedi qui), i media hanno parlato di un’inversione di tendenza, appunto in Danimarca, in Finlandia e in Svezia, che in realtà ha riguardato solo le liste più di sinistra, particolare al quale non è stato dato sufficiente rilievo.
È il caso della Danimarca, dove i socialdemocratici (Sd) sono usciti nettamente sconfitti dal voto europeo, passando dal 27% del 2022 a un misero 15,6%, sorpassati dal più radicale Partito popolare socialista (Sf), che ha raggiunto il 17,4%, raddoppiando i consensi ottenuti nel 2022. Non c’è stato uno sconvolgimento dell’attuale assetto governativo, in cui la socialdemocrazia è coalizzata con due partiti centristi, e tuttavia si è manifestata un’insofferenza, da parte di una fetta dell’elettorato di sinistra, nei riguardi della premier Mette Frederiksen, che cerca di coniugare una politica sull’immigrazione (vedi qui), degna di un partito di estrema destra, con i temi più cari alla sinistra, come la critica alla globalizzazione, la transizione ecologica e un’estensione del welfare, con l’obiettivo dell’aumento dei sussidi e della possibilità di pensione anticipata per chi abbia lavorato a lungo. Due linee differenti che intendono affrontare, da un lato, l’esigenza di sicurezza dei danesi e, dall’altro, le principali tematiche progressiste. Un mix che è stato definito “rosso-bruno”, con un termine che evoca, con un pizzico di esagerazione, una miscela ideologica tra comunismo e nazismo; e tuttavia giustificato quando, nel 2022, il governo aveva messo in campo un piano che prevedeva, per i richiedenti asilo, un trasferimento in centri di accoglienza al di fuori dell’Unione europea (come in Ruanda) nel periodo di elaborazione delle loro domande. Una soluzione aberrante – ritirata però nel 2023 – per un governo di sinistra, a cui si aggiungevano altre proposte raccapriccianti, come quella del sequestro del denaro e dei beni di valore ai richiedenti asilo, e quella di utilizzare come centro di raccolta dei profughi un’isola in cui, in passato, venivano realizzati esperimenti sulle malattie infettive trasmesse dagli animali. Va sottolineato che la percentuale di immigrati in Danimarca rappresenta circa il 10% della popolazione, in linea con quella di altri Paesi europei: una cifra, insomma, che non giustifica alcuna misura straordinaria e men che mai la barbarie che abbiamo descritto. Ricordiamo che la proposta di asilo in Ruanda è stata invece approvata dal premier britannico, Rishi Sunak, nel tentativo di far risalire la china ai conservatori (vedi qui).
Proprio la deriva razzista è probabilmente alla base del successo della formazione Sf, nata nel lontano 1959 da una scissione del Partito comunista danese, quando l’allora leader, Aksel Larsen, decise di abbandonare il partito dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. I popolari socialisti di sinistra, la cui politica è incentrata sui temi dell’ambiente e della giustizia sociale, sono capeggiati oggi dall’ex ministra Pia Olsen Dyhr, in carica da quando, nel 2007, il partito era parte di un governo presieduto dalla socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt. Se fra due anni, alle prossime elezioni generali, dovesse confermarsi questo quadro, sarà inevitabile uno spostamento a sinistra dell’esecutivo.
Anche in Finlandia, sia pure per ragioni diverse, i socialdemocratici (Sdp) hanno registrato un calo dei consensi, passando dal 19,93% delle legislative dello scorso anno al 14,9% delle europee, il minimo storico per un partito che ha governato il Paese dal 1966, tranne alcune parentesi, tra cui quella attuale, che vede in carica il governo conservatore di Petteri Orpo, che ha sostituito la socialdemocratica Sanna Marin. Le dimissioni della giovane premier sono certamente all’origine del brutto risultato europeo, malgrado Marin abbia portato la Finlandia nella Nato, assecondando la diffusa richiesta di sicurezza nei riguardi del pericolo russo. La leader socialdemocratica (che ha ricoperto il ruolo dal 10 dicembre 2019 al 20 giugno 2023) ha rassegnato le dimissioni in seguito alla sconfitta del partito nelle elezioni dello scorso anno, quando si è collocato al terzo posto dopo il centrista Partito di coalizione nazionale e quello dei Veri finlandesi, di estrema destra. Tutte e tre le formazioni viaggiavano intorno al 20%, e dunque i giochi potevano rimanere aperti; ma Marin ha preferito ritirarsi, adducendo anche ragioni di carattere privato, come la sua separazione in corso, che, se ne ha fatto emergere il volto umano, ne ha anche rivelato una certa inaffidabilità, malgrado le doti indiscusse. Scelta che ha peraltro aperto la porta alla leadership socialdemocratica di Antti Lindtman, un uomo che si è rivelato però inadeguato al compito di rimettere in sella quello che è stato per decenni il principale partito della Finlandia. Così, come in Danimarca, a conseguire il primato, tra le forze di sinistra, è stata l’Alleanza di sinistra, fra i cui fondatori c’è il Partito comunista finlandese, formazione arrivata seconda con il 17,3% dei voti.
Musica non troppo diversa in Svezia. Se anche qui la componente più radicale, verdi e sinistra, ha registrato importanti risultati – insieme quasi il 24%, il doppio del risultato nelle elezioni per il parlamento –, non si può dire lo stesso dei socialdemocratici, presieduti dall’economista Magdalena Andersson, già ministra di Stato, l’equivalente di premier. Pur restando il primo partito del Paese, i socialdemocratici sono passati dal 30,3% delle legislative al 24,8% delle europee. Il più grande partito della sinistra ha governato per decenni: dal 1932 al 1976, dal 1982 al 1991, dal 1994 al 2006, e ancora dal 2014 al 2022, con alcune interruzioni. Andersson era stata alla testa del governo dal 30 novembre 2021 al 17 ottobre 2022 (vedi qui), ma non era riuscita a formare una maggioranza di governo, costituita in seguito dal conservatore Ulf Kristersson, con l’appoggio esterno dell’estrema destra dei Democratici svedesi di Jimmie Åkesson. Anche in Svezia la destra cavalca il malcontento della popolazione, che vede ormai con insofferenza l’aumento degli immigrati (vedi qui), la cui percentuale tuttavia non supera il 10%. Ma il problema – che, per forza di cose, non lascia indifferente anche la sinistra – non sta tanto nella presenza di un determinato numero di stranieri, ma nel fatto che una parte di essi ha dato vita a bande criminali che gestiscono, a suon di sparatorie e morti, il traffico della droga. Una patata bollente nelle mani della destra attualmente al governo, ma che non può non preoccupare gli stessi socialdemocratici, che potrebbero essere costretti a mettere al primo posto dell’agenda politica la sicurezza piuttosto che il welfare.
Nella foto: i Verdi svedesi gioiscono dei risultati ottenuti in Europa