Satnam Singh, bracciante di origine indiana di 31 anni, non ce l’ha fatta. È morto dissanguato, con un braccio amputato, all’ospedale San Camillo di Roma per la gravità delle ferite riportate in un gravissimo “incidente” sul lavoro che si è consumato nei campi della zona di Latina, area che, da almeno vent’anni, è luogo di lavoro immigrato, sfruttato ai limiti dello schiavismo. Una forma di lavoro apparentemente arcaica, ma modernissima, che viene tollerata e presuppone responsabilità incrociate a vari livelli: dalle organizzazioni agricole alle istituzioni, che fanno finta di non vedere.
O peggio, che mostrano una faccia presentabile e civile, com’è successo in questo caso con le dichiarazioni della Coldiretti, prima, e poi del presidente della Regione Lazio e della sindaca di Latina, Matilde Eleonora Celentano (Fratelli d’Italia). Si dicono tutti pronti a costituirsi parte civile nell’eventuale processo. Appunto “eventuale”, vista l’aria che tira. Nei servizi dei telegiornali Rai, in particolare in quello del Tg1 delle 20 del 19 giugno, abbiamo ascoltato frasi indecenti: “In fondo se l’è cercata”, ha detto uno dei titolari delle tante aziende che utilizzano il caporalato come ufficio di collocamento. “Sono troppo superficiali questi stranieri, noi li mettiamo sempre in guardia, ma non ci ascoltano”. Siamo insomma alla formula “se l’è cercata”, come quando una donna stuprata viene accusata di vestire in modo provocante.
Ora ci si scandalizza e si pronunciano frasi a effetto; nessuna delle quali può coprire o superare però la realtà dei dettagli di questa cronaca nera, come quello riguardante la cassetta di frutta nella quale è stato “depositato” il braccio del giovane abbandonato dai caporali di fronte a casa sua, con la moglie che urlava disperata: “Portatelo all’ospedale”.
Nessuno ha visto? Nessuno vede? “Latina – ha scritto Marco Revelli, che studia da anni le trasformazioni del lavoro – non è un’area sperduta del profondo sud. Dista una cinquantina di chilometri in linea d’aria dal centro della capitale, là dove si governa e decide. Dove ci sono i centri del potere e del controllo. Possibile che si ignorassero realtà come quella che ha segnato il destino di Satnam Singh? Che gli andirivieni dei caporali e dei loro capibastone non fossero visibili a chi dovrebbe vigilare sulle regole che egli stesso si dà?” Dov’erano, se c’erano (visto che sono così pochi) gli ispettori del lavoro – si chiede Revelli, e noi con lui. Dov’erano le forze dell’ordine e dov’erano le strutture regionali (di quella Regione che ora si offre di pagare i funerali, ma che non ha saputo impedire che la piaga del caporalato dilagasse nel suo territorio). “Infine: dov’è stata, finora, la Coldiretti, che nelle campagne ha una presenza capillare e più di ogni altro dovrebbe vedere tutto ciò che vi accade?”.
Quello che scrive Revelli, commentando un caso singolo di cronaca, si potrebbe purtroppo generalizzare. Quanti sono, infatti, i lavoratori stranieri e italiani che vivono in condizioni simili o almeno paragonabili a quelle degli indiani sikh di Latina? Stiamo parlando di lavoro o schiavismo, nell’epoca della rivoluzione dell’intelligenza artificiale e dell’ingresso sempre più massiccio dei robot nella produzione?
Tecnicamente, Satnam Singh non era uno schiavo. Ma era un lavoratore immigrato, che non aveva nessuna alternativa al lavoro che gli era capitato. Uno dei tanti lavoratori che non hanno a disposizione la scelta delle dimissioni. In Italia queste forme di lavoro sono sempre più diffuse; e del resto, dai rapporti internazionali, apprendiamo di essere ben piazzati nelle classifiche della schiavitù vera e propria. In un recente rapporto del Global Research di Walk Free Foundation, l’Italia ha conquistato il terzo posto nella classifica europea per numero assoluto di schiavi, dopo Turchia e Polonia. Il dibattito sulle “grandi dimissioni” ha appassionato sociologi, mondo accademico e talk show. Per fortuna, ci sono lavoratori che possono scegliere e che, nel Paese con i salari più bassi d’Europa, possono fare il grande passo. Contemporaneamente, però, ci sono milioni di persone, in Italia e nel mondo, che non possono cambiare nulla, neanche se lo vogliono e ci provano.
“Spinte da un progresso tecnico e da un tasso di innovazione senza precedenti – ha scritto Pasquale Tridico nel suo recente Governare l’economia. Per non essere governati dai mercati (Castelvecchi editore, 2024) – le dinamiche economiche hanno trasformato velocemente le caratteristiche del mercato del lavoro e le sue forme, così come i processi produttivi. Non è cambiata però la governance che sottende questi processi, né dentro le aziende, né nelle istituzioni che li regolamentano. Si percepisce uno stallo nei progressi della qualità della vita, e in molti settori un peggioramento delle condizioni di lavoro, dei guadagni di produttività e quindi delle retribuzioni salariali. In Italia, se si considera il periodo tra il 1990 e il 2020, i salari medi sono diminuiti del 2,9%. In più, l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto dei lavoratori di circa il 15%”.
Oggi, in Italia, il 12% dei lavoratori è povero e il 30% è a rischio di povertà, a causa di salari che non superano i mille euro al mese. “Sembra che l’innovazione, invece che riduzione degli orari di lavoro, abbia comportato maggiore intensità, iper-connessione, stress da lavoro correlato” – scrive ancora Tridico. “Precarietà e contratti brevi aggravano la condizione dei lavoratori poveri: nel 2022 vi erano 4,2 milioni di contratti a termine e 4,3 milioni di lavoratori che guadagnavano salari orari inferiori a nove euro lordi. I dati sono estremamente negativi soprattutto per giovani e donne, in particolare per quanto riguarda le regioni meridionali del Paese”. E se Tridico può essere accusato di faziosità, sentiamo un’altra fonte, quella della “voce.info”. Francesco Giubileo scrive che “nel 2022, secondo i dati Eurostat, l’Italia si trovava al secondo posto in Europa, dietro solo alla Romania, per il più alto tasso di Neet (Not in education, employment or training) tra i giovani (15-29 anni). Si tratta di un problema cronico: la quota di giovani che non studiano, non lavorano o non seguono corsi di formazione è sempre stata molto elevata nel nostro Paese”.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: e il sindacato? Contro la precarizzazione e l’aumento delle forme di lavoro sottopagato e di sfruttamento la Cgil ha lanciato il referendum per abolire il Jobs Act. Sono state già raccolte più di cinquecentomila firme. Sarà una battaglia vincente? Si riuscirà a incidere in qualche modo in un contesto politico in cui in parlamento si vota per il premierato e l’autonomia differenziata? Vedremo.
Intanto, registriamo la reazione della Flai Cgil, quella cioè che all’interno dell’organizzazione nazionale è più vicina all’idea di puntare tutto sulla formula del “sindacato di strada”. Proprio nel giorno della tragedia di Satnam Singh, presso la Casa del Popolo di Borgo Hermada (Terracina), era stata organizzata la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa “Diritti in campo con le brigate del lavoro”, organizzata dalla Flai Cgil, una campagna nazionale che vedrà coinvolto il territorio del Lazio. Le brigate del lavoro rientrano nell’attività del sindacato di strada, modalità con cui la Flai opera da anni su tutto il territorio, con il fine di contattare quanti più lavoratori e lavoratrici possibili, quando escono dai luoghi di lavoro, tra i campi, nei centri urbani o nelle zone periferiche in cui risiedono.
Seguiremo gli sviluppi di questa iniziativa sindacale, e naturalmente gli sviluppi giudiziari “dell’incidente”. Nessuno può voltarsi dall’altra parte. Nessuno può permettersi dichiarazioni retoriche senza alcun seguito. Dobbiamo cominciare a individuare le responsabilità, non solo legali dei fatti, ma anche sociali e politiche. “Questo è appunto un assassinio premeditato come l’azione dell’individuo, soltanto un assassinio più celato, più perfido, un assassinio contro il quale nessuno si può difendere, che non sembra tale, poiché non se ne vede l’autore, perché è l’opera di tutti e di nessuno, perché la morte della vittima sembra naturale e perché è meno un peccato di azione o piuttosto un peccato di omissione. Ma esso rimane un assassinio premeditato” (F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845).