Uno degli interrogativi più diffusi nel cosiddetto popolo di sinistra (inteso in senso largo, compresa quella parte che, su molti temi, risulta non troppo lontana dalle posizioni della destra), in questo anno e mezzo abbondante di diciannovesima legislatura repubblicana, era: lo faranno davvero? Ci riusciranno? Andranno fino in fondo? Possibile che non si dividano a un passo dal traguardo? Oggetto dei dubbi, per meglio dire delle speranze, di quel pezzo di mondo che non vorrebbe rassegnarsi al governo di destra-centro di Giorgia Meloni erano le “riforme”. Come “presi per incantamento”, militanti, dirigenti e commentatori d’area, spaccando il capello in quattro, enfatizzando la concorrenza interna alla coalizione che sostiene il governo, hanno vissuto a lungo una fantasia secondo la quale, prima o poi, una impuntatura “patriottica” di Fratelli d’Italia, o uno slancio neo-secessionista eccessivo della Lega, avrebbero potuto far inceppare il meccanismo.
E invece le risposte a quelle domande stanno arrivando, e sono tutte positive (in senso letterale, s’intende): il premierato ha compiuto il primo passaggio parlamentare (ne servono quattro, essendo un disegno di legge di modifica della Costituzione); l’autonomia differenziata è legge (era un disegno di legge ordinario, non una modifica costituzionale); un profondo rivolgimento del sistema giustizia, la terza “riforma” – quella postuma dedicata a Silvio Berlusconi – è in cammino. Il massimo sussulto registrato dai sismografi della politica è il dissenso, un filino tardivo, dei forzisti calabresi sul testo approvato alla Camera, e che loro hanno deciso di non sostenere nel voto. Quindi, come avevamo anticipato (vedi qui ), alle opposizioni, quelle più o meno reali, non resta che sperare nei referendum: sull’autonomia innanzitutto, poi sulle manomissioni della Carta.
Le Regioni del Nord si preparano a passare all’incasso sulle ventitré materie oggetto di possibile gestione autonoma, comprese le più bizzarre: saremo probabilmente un caso unico al mondo con l’energia regionalizzata. L’austerità europea, rilanciata col nuovo Patto di stabilità, sarà gestita all’insegna della “secessione dei ricchi” e il prezzo sarà pagato, secondo le previsioni più credibili, soprattutto dalle Regioni già svantaggiate del Sud.
Più lontano, per ora, l’approdo del premierato, sul quale la presidente del Consiglio si gioca molta parte della sua avventura a palazzo Chigi, ragione per la quale Fratelli d’Italia sta ragionando di possibili aperture a correzioni parziali su alcuni temi: la questione del secondo premier non eletto potrebbe subire delle modifiche, come pure potrebbe essere riconsiderato il tema dello statuto delle opposizioni, posto dall’ex presidente del Senato, Marcello Pera, con una certa forza durante il passaggio al Senato. Un passato con Forza Italia, oggi in Fratelli d’Italia, la sua è statala voce di destra più autonoma sulle criticità del progetto di riforma costituzionale. L’obiettivo di queste possibili aperture, però, non è tecnico ma politico: una minore rigidità della maggioranza nel percorso parlamentare potrebbe servire a contrattare l’appoggio delle forze centriste come Italia viva e Azione, che non a caso hanno disertato la manifestazione delle opposizioni a piazza Santi Apostoli, il cui approccio “frontista” è decisamente lontano dalla loro condotta parlamentare prevalentemente ispirata a una certa flessibilità. In caso di referendum, Meloni preferirebbe rivendicare l’approvazione della riforma insieme a parti delle opposizioni, proprio per disinnescare, di fronte agli elettori “moderati”, l’immagine del muro contro muro.
Il tema più immediato resta quello dell’autonomia regionale, che ha portato a un revival del tricolore in parlamento e anche a un brutto episodio di aggressione fisica a un deputato di opposizione. Nella piazza romana di martedì 18 giugno, oltre alle voci dei leader di partito, si è sentita quella dei costituzionalisti e dei comitati che da anni si battono contro le intese Stato-Regioni sul tema, e poi contro il disegno di legge Calderoli in questa legislatura. Tra i punti dell’appello, che sono stati letti dal palco, ce ne sono alcuni che possono essere realisticamente definiti all’inglese come wishful thinking o, se si preferisce, “pii desideri”. Ma – oltre alle auspicate pressioni sulle Regioni e alle speranze riposte in un intervento della Corte costituzionale – il punto più interessante è forse quello che chiede alle forze di opposizione di “costruire un programma politico in cui si affermi l’impegno a riscrivere il Titolo V”.
Interessante, perché questo punto ci riporta alle origini della vicenda: più volte Calderoli ha beffardamente ricordato ai suoi critici che “l’autonomia differenziata non è nel mio testo di legge di attuazione, ma è nella Costituzione che avete scritto voi”, ovvero nella mai abbastanza deprecata riforma del Titolo V della Costituzione, varata dal centrosinistra all’epoca del governo Amato II. Il vero tallone di Achille di chi si candida a guidare la rivolta del Paese contro il regionalismo di stampo neo-secessionista: altre volte gli italiani hanno respinto nei referendum gli assalti più brutali agli equilibri costituzionali, ma crederanno stavolta nel “frontismo antifascista e anti-secessionista”, guidato da chi questa riforma l’ha resa possibile e l’ha anticipata? Certo, parliamo di un’altra epoca storica, formalmente anche di altri partiti e altri gruppi dirigenti. Ma, senza andare troppo lontano nel tempo, fu un presidente del Consiglio del Pd, Paolo Gentiloni, a firmare nel 2018, con alcune Regioni settentrionali, le pre-intese sull’autonomia. Fra queste, l’Emilia-Romagna presieduta, allora come oggi, da Stefano Bonaccini, attualmente presidente del Pd e tra i più votati nelle recenti elezioni europee. È lecito sospettare che la battaglia delle opposizioni, sconfitte in parlamento, si presenti in salita anche nei prossimi passaggi affidati ai cittadini.