L’amara ironia con cui l’impareggiabile Totò ha marcato, con la sua poesia ’A livella, come anche nella morte non manchino differenze di censo, e servilismi nei comportamenti, ha trovato un’occasione per tornare attuale. Ieri mattina la notizia del suicidio del generale Claudio Graziano ha lasciato sgomenti istituzioni e mondo dei media. L’alto ufficiale aveva raggiunto negli ultimi mesi, e durante le fasi iniziali della guerra in Ucraina, una certa notorietà anche presso il grande pubblico, per via dei suoi commenti lucidi ed equilibrati. E proprio negli ultimi giorni i cronisti avevano riportato le sue precise e documentatissime posizioni dal Festival dell’economia di Torino.
Il generale, del resto, aveva un profilo autorevole e delicatissimo. Ha ricoperto funzioni di massima responsabilità al vertice delle forze armate nazionali, ed è stato coordinatore del gruppo interforze europeo; ora era presidente di Italcantieri, forse la più rilevante società pubblica, per le sue strategiche forniture logistiche e tecnologiche a Paesi di mezzo mondo. La sua scomparsa non poteva, subito dopo la scoperta del corpo questa mattina, non lasciare una scia di smarrimento e mistero. Con relativo scossone in borsa per il titolo della società che presiedeva. Subito dissolta per l’inequivocabile scena che si è presentata ai soccorritori: accanto al corpo una pistola, ancora calda, e un biglietto con le dettagliate ragioni del gesto. Qualche mese fa era scomparsa la moglie del presidente, lasciandolo in uno stato di profonda prostrazione da cui probabilmente non è riuscito a riprendersi.
Proprio il disorientamento e la foschia di incertezza che aveva avvolto la morte dell’alto ufficiale al primo annuncio, con la conseguenza di un’immediata iniziativa della procura di Roma, che ha aperto un fascicolo per induzione al suicidio, avrebbe preteso chiarezza e precisione nell’informazione. Invece le videate dei siti delle grandi testate – “Corriere della sera”, “Repubblica”, “Sole 24 ore” – hanno fatto a gara per arzigogolare sulla dinamica della scomparsa, arrivando anche a descrivere dettagliatamente la scena, con l’inevitabile messe di indizi che portavano alla conclusione inevitabile del suicidio, ma senza mai usare, esplicitamente, il termine “suicidio”. Al massimo dell’audacia, “Repubblica”, nella sua cronaca web arrivava, a metà del resoconto, a riferire il fatto che il generale si è tolto la vita.
Ora, nelle stesse videate delle stesse testate, campeggiava la notizia di un quadruplice suicidio nelle carceri italiane, giustamente raccontato per quello che è: la tragedia di un suicidio, di un atto disperato di esseri umani che arrivano alla decisione consapevole, il più delle volte, di togliersi la vita. Atto che si chiama, nella lingua italiana, appunto suicidio. Un termine usato quotidianamente dai giornalisti in tutte le occasioni che lo richiedono e in cui sono coinvolti normali cittadini. Quando invece la vittima di una tale disperazione è un personaggio di alto lignaggio, ci si rifugia in contorte e anodine definizioni, che lasciano indefinita la causa della scomparsa.
Non è una forma di rispetto o attenzione. È solo il retaggio di vecchie prudenze e cautele, imposte da precise circolari di polizia al tempo del fascismo, e che oggi sono da addebitare a un riflesso d’ordine istintivo da cui i giornalisti – che giustamente rivendicano ruolo e centralità in un’infosfera sempre più inquinata dalle riproduzioni digitali – dovrebbero, con forza e determinazione, liberarsi. Se non altro per una questione di serietà, come spiegava il principe De Curtis nella sua poesia: “Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive: nuje simmo serie… appartenimmo ’a morte!”.