Alcuni giorni fa, su queste pagine, avevamo proposto una sorta di “piccola guida” alla lettura dei risultati delle elezioni dell’8 e 9 giugno (vedi qui): una serie di temi e criteri su cui valutare l’esito del voto. In questo articolo torniamo sull’argomento. Partendo da una premessa. Chi segue la politica sui giornali italiani sa bene che, per così dire, verba volant: abbondano i discorsi vuoti, si fanno analisi e retroscena sofisticati e arzigogolati, e il giorno dopo sparisce tutto, si scorda tutto, e si ricomincia da capo. Chi vuole analizzare le vicende politiche (come chi scrive) senza dissimulare il proprio essere “di parte”, ma vuole dare anche un po’ di rigore “scientifico” alle proprie analisi, dovrebbe sempre fare uno sforzo di tipo “sperimentale”: verificare alla luce dei fatti se le ipotesi iniziali, soprattutto quando assumono la forma della “previsione” (che, in politica, si sa, è sempre rischiosa), vengano confermate o smentite, e quali altre ipotesi di ricerca emergono. Cosa dicevamo, nel precedente articolo?
In primo luogo, il bilancio sull’esito del voto nelle ventinove elezioni dei comuni capoluogo di provincia. Si era detto che, ovviamente, esso si misura essenzialmente sul numero delle amministrazioni conquistate. Si partiva da un “pareggio” tra centrodestra e centrosinistra (tredici a tredici), a cui andavano aggiunte due amministrazioni del Movimento 5 Stelle e una civica. Alprimo turno, il centrosinistra ne conferma otto e ne conquista tre (Pavia, Cagliari e Sassari); il centrodestra ne conferma sei; e ci saranno poi – a riprova del generale equilibrio tra i due poli – ben dodici ballottaggi (a sua volta distinguibili in tre categorie: quelli favorevoli al centrosinistra (tre, tra cui Firenze) o al centrodestra (uno solo), e ben otto che appaiono invece decisamente incerti. Tra questi, due città significative come Perugia (che il centrosinistra strapperebbe al centrodestra, e che nel nostro precedente articolo avevamo segnalato come un caso da tenere sotto speciale osservazione) e Lecce (che il centrodestra strapperebbe al centrosinistra). Si vedrà alla fine, dopo i ballottaggi.
È ancora presto per trarre conclusioni sul dato che avevamo segnalato: ossia che, in questi ventinove comuni, in ben ventidue il Movimento 5 Stelle era presente in coalizioni, più o meno ampie, ma comunque insieme al Pd. Anche in questo caso, bisognerà attendere l’esito dei ballottaggi. Ciò ci introduce all’altro tema centrale dell’analisi di queste elezioni: come hanno mostrato le prime analisi sui flussi e i movimenti degli elettori (si veda qui in particolare quello del Cise-Luiss).
Il dato decisivo di queste elezioni è stato quello dell’astensione (sei milioni di voti rispetto alle politiche del 2022), ma (il che conferma la nostra precedente ipotesi) questa diserzione dalle urne non è stata omogenea e indifferenziata, è stata “asimmetrica”: ha colpito soprattutto il Movimento 5 Stelle (due milioni di voti in meno), e specialmente al Sud. Le analisi citate hanno per il resto giustamente rievocato un’espressione coniata a suo tempo da Ilvo Diamanti, “il muro di Arcore”, a significare la sostanziale, reciproca impermeabilità dei due elettorati della destra e del centrosinistra: spesso mobili, sì, ma all’interno del loro campo (a destra, oggi, premiano Meloni, ovviamente, a spese della Lega, rispetto al 2019).
In questo contesto di calo della partecipazione, le sole due forze che guadagnano anche in cifra assoluta sono il Pd (+ 250mila voti) e Alleanza verdi-sinistra (+ 550mila): sintomo di una buona mobilitazione della propria base elettorale, di una certa capacità di riattivazione di una parte di ex astenuti e di un qualche flusso in entrata (per es. dai 5 Stelle). E, si badi bene, non è una spiegazione che sminuisca o ridimensionai il valore politico di questi risultati: al contrario, appare oggi proprio un successo politico quello di saper “ri-motivare” i propri potenziali elettori. Non è una cosa scontata: ed Elly Schlein, da una parte, e il duo Bonelli-Fratoianni, dall’altra, ci sono riusciti. Nel precedente articolo, avevamo segnalato la soglia del 20% come metro di un successo politico per il Pd: ci eravamo tenuti “bassi”, ma in effetti il 20% era commisurato a una minore flessione dei votanti, che non c’è stata. I sei milioni e trecentomila voti del Pd, rapportati alla percentuale dei votanti delle politiche, corrispondono grosso modo al 20%: ma, come avevamo ricordato, il confronto con il 22,75 delle precedenti europee doveva scontare la presenza, allora, nelle liste del Pd sia di Renzi sia di Calenda (che oggi ottengono comunque, presi insieme, il 7%).
Rimane da capire il perché di questa massiccia astensione che ha colpito soprattutto i 5 Stelle: nel precedente articolo avevamo posto un quesito: qual è la vera consistenza del partito di Conte? Quella debole e friabile che è emersa dal voto locale e regionale, o quella che tutti i sondaggi nazionali gli attribuivano da tempo stabilmente (intorno a un cospicuo 15%?). Il 10% ottenuto è stato vissuto, dal Movimento e dallo stesso Conte, come una dura sconfitta: e non saremo certo noi a voler smentire questa percezione, maturata evidentemente sulla base delle aspettative. Ma il 10% dei voti, in un contesto competitivo come quello delle europee, non sono pochi: specie se il Movimento, a causa delle sue stesse regole, ha concorso a tagliarsi le gambe nella corsa, con il vincolo del divieto del doppio mandato (da qui, liste considerate da tutti deboli, in una gara in cui conta molto la capacità di raccolta delle preferenze e di farlo, oltre tutto, sulla grande scala delle cinque circoscrizioni). Facciamo solo un esempio controfattuale: in provincia di Napoli il Movimento 5 Stelle è il primo partito con il 24,9% dei voti (il Pd segue con il 24,2); a Napoli città, il Pd ha il 26,7 e i 5 Stelle il 26,6 (nel 2019 avevano il 40%). Ebbene, come sarebbero andate le cose se a Napoli si fosse candidato un leader conosciuto e popolare come Roberto Fico? Non lo sappiamo, ma la domanda è lecita.
Sul piano politico più generale, rimane valido il giudizio che avevamo formulato, anche su queste pagine, nei mesi scorsi: il Movimento 5 Stelle si illude se pensa di poter tornare alla originaria collocazione “trasversale”, non è più sostenibile; d’altra parte, è comprensibile che voglia mantenere un profilo autonomo, senza ridursi al ruolo di junior partner rispetto al Pd. In che modo sarà risolto questo dilemma, sarà uno dei temi dei prossimi mesi.
Di particolare soddisfazione, poi, avere avuto ragione su quanto avevamo scritto a proposito di Renzi e di Calenda: “è difficile dare valutazioni, ma – se posso sbilanciarmi con un’impressione personale, che certo potrà rivelarsi fallace – si direbbe che né la lista ‘Stati Uniti d’Europa’ (Renzi e Bonino) né quella di Calenda vivano oggi un particolare slancio”. Eravamo stati prudenti: ma altro che “slancio” mancato, per queste liste: è stato un fallimento politico clamoroso! Che rimanda però a una questione seria: è mai possibile che la cultura politica liberal-riformista, in Italia, esprima solo queste modeste figure? Eppure, in prospettiva, uno schieramento alternativo alla destra avrebbe bisogno di questa componente (a patto che sia coerentemente schierata: il che non è accaduto con i comportamenti scopertamente opportunistici di Renzi, in particolare). Sui giornali, nel dopo elezioni, se ne sta cominciando a discutere, e sarà interessante seguire anche gli sviluppi.
Infine, queste elezioni ci consegnano il tema politico che ci accompagnerà da qui alle prossime elezioni politiche: nonostante le forti tensioni interne e le rivalità, i tre partiti della destra (di centrodestra, propriamente, è rimasta solo Forza Italia) sanno ricompattarsi e non c’è alcun dubbio che, quale che sarà il futuro sistema elettorale, al momento opportuno sapranno trovare un accordo. Questi partiti hanno preso undici milioni di voti; dall’altra parte, l’asse Pd-Avs ha ottenuto sette milioni e 170mila voti; il Movimento 5 Stelle due milioni e trecentomila; i due centristi un milione e 650mila, a cui va aggiunto il mezzo milione di voti ottenuto dalla lista Santoro (altra operazione che non era difficile prevedere fallimentare). In totale, le non-destre hanno undici milioni e seicentomila voti. Ma, a questo punto, scatta l’obiezione: non sono sommabili! Bene, allora qualcuno spieghi cosa intende fare, da qui alle prossime elezioni politiche: anche ammesso che le differenze politiche non siano superabili (ma in Francia, in quattro giorni, la gauche ha firmato anche un documento politico comune, oltre che concordare e distribuirsi le candidature nei collegi), non sarebbe necessario quanto meno un accordo elettorale che impedisca una nuova vittoria delle destre? Se ne riparlerà certamente.