Walter Cerfeda è un esperto di questioni europee. Ha avuto importanti responsabilità nel sindacato europeo a Bruxelles, dopo essere stato dirigente della Fiom e della Cgil e avere diretto centri di ricerca come quello dell’Ires. Negli anni è riuscito a far convivere le esperienze politiche e sindacali con la passione per la letteratura. Con i suoi romanzi (recenti Vivere a viso aperto e Coprifuoco) ha ottenuto importanti riconoscimenti. Abbiamo dialogato con lui sull’Europa uscita dalle urne dell’8 e 9 giugno.
Cerfeda, partiamo dai numeri. Si può parlare di una tenuta della maggioranza uscente?
La maggioranza tiene bene con 401 parlamentari eletti su una soglia minima di 361. Una scorta di 40 parlamentari in più non è poco. A questi si potrebbero forse anche aggiungere, almeno su alcuni temi, la cinquantina di voti ottenuti dai verdi. Quindi una maggioranza certo diminuita rispetto al 2019, ma autosufficiente e con un mandato europeista. Il problema è però che questi voti non bastano per eleggere il/la presidente della Commissione per la quale serve una maggioranza qualificata di 540 voti. La distanza è notevole, e questo spiega anche il corteggiamento di Ursula von der Leyen verso Giorgia Meloni, che rappresenta oltre 70 voti del suo gruppo conservatore.
Come andrà a finire, a oggi, non lo sa nessuno. Bisogna anche tenere conto che ai 401 voti non corrisponde sulla carta nessuna altra maggioranza possibile: né quella tra Ppe, conservatori e liberali, che si ferma a 330 parlamentari, tantomeno quella Ppe più tutte le destre che arriverebbe a circa 315. Questo però non vuol dire affatto che a una maggioranza politica in parlamento corrisponda una maggioranza di governo dell’Europa, perché non è il parlamento che la forma. La Commissione è infatti composta da commissari che vengono nominati dai singoli governi e il Consiglio europeo dai capi di governo a forte prevalenza di destra. Si può prevedere, quindi, un’asimmetria tra queste istituzioni europee e il parlamento. Si pensi per esempio ad alcune situazioni, come quelle scandinave o tedesca. I finlandesi e gli svedesi nomineranno commissari di destra, mentre alle europee hanno vinto socialisti, verdi e popolari. Così la Germania, dove il governo nominerà un commissario dell’attuale maggioranza, mentre in parlamento la maggioranza dei parlamentari saranno dei popolari e di Afd. Un bel guazzabuglio, in cui forse lo scenario più possibile sarà quello di “maggioranze variabili” a seconda dei temi e dei dossier da affrontare.
Come spieghi la tenuta, anche se relativa, di popolari e socialdemocratici pur in presenza dell’onda di destra?
Il perché di questo dato lo si legge nel recentissimo rapporto della Fondazione Hebert sul voto in Germania. La paura e il disorientamento, determinato da quanto è successo negli ultimi anni, non ha prodotto soltanto collera e risentimento, ma anche incertezza e insicurezza, che hanno portato la maggioranza delle persone ad affidarsi a partiti stabili e moderati. Il Ppe vince con ottimi risultati in quasi in tutta l’Europa. È oggi il primo partito in 13 Paesi e secondo in altri otto. Mi pare che queste elezioni abbiano messo in luce anche una certa stanchezza verso i partiti parolai e populisti e gli estremismi più radicali, che alla fine raccolgono in Europa solo l’8% dell’elettorato. Per questo credo che si debba sempre provare a storicizzare quel che accade.
A che cosa ti riferisci?
Negli ultimi tre anni abbiamo avuto una pandemia, ci sono due guerre in corso, di cui una in casa che ha prodotto una grave crisi economica che ha colpito in particolare la Germania, finita in recessione, e una crescita forte dell’inflazione che ha impoverito tutti i ceti a reddito fisso. Nel passato, eventi di questa portata hanno sempre provocato paura e spostamenti a destra dell’opinione pubblica. Per questo, dal mio punto di vista, ciò che si sta verificando è grave ma anche reversibile, dove la reversibilità sta nella soluzione che si riesce a trovare per risolvere i problemi aperti, a partire dalle guerre.
Va aggiunto anche un elemento trascurato nel Rapporto della Fondazione Hebert: i governi che di più sono stati colpiti dagli eventi succedutisi sono quelli che poi di più sono stati penalizzati dall’elettorato. Ed è anche ovvio se ci si pensa. La Germania è finita in recessione economica con la chiusura del gas russo, e ha dovuto prendere misure dolorosissime per venirne fuori, come lentamente sta avvenendo. Come si potrebbe essere anche popolari? Ma lo stesso discorso vale per la Svezia e la Finlandia, dove la paura della guerra ha prodotto uno sbandamento a destra e la richiesta di entrare nella Nato. Ma visti poi all’opera quei governi, alla fine l’elettorato ha votato per l’opposizione.In ogni caso, per riuscire a capire davvero l’evoluzione politica europea bisognerà attendere il 7 luglio e ciò che avverrà in Francia. Per ora, il risultato elettorale ha premiato nettamente la destra, ma dovrà essere confermato nelle prossime elezioni. Staremo a vedere. Intanto tutti i partiti di sinistra stanno provando a fare un patto contro la destra e i repubblicani (i gollisti) hanno espulso il loro presidente, Éric Ciotti, che aveva fatto un accordo con i lepenisti.
Ti senti di fare un pronostico sul futuro politico di Macron?
In Francia c’è il doppio turno, bisognerà vedere in quell’occasione ciò che avverrà in un’elezione di una destra che si schiera contro tutti gli altri partiti, e anche se gli elettori seguiranno le loro indicazioni o confermeranno il consenso alla destra. Quello che è certo è che l’appuntamento francese rallenterà tutte le decisioni europee. È evidente che se Macron ribaltasse il voto, avrebbe molte carte da spendere e una nuova forza e credibilità in Europa (compresa un’influenza a deciderne i vertici, ivi compresa un’opzione Draghi al Consiglio o alla Commissione). In caso contrario lo scenario sarebbe inedito, non tanto sul piano formale perché resterebbe in carica a rappresentare la Francia, ma su quello sostanziale. Dunque è questo un lasso di tempo in cui tutti, compresa Giorgia Meloni, giocheranno con le carte coperte.
Che cosa possiamo dire invece sulla composizione sociale del voto? Si discute da anni sulla “dissociazione” di parti consistenti delle classi lavoratrici che votano a destra o si astengono. Queste elezioni ci forniscono elementi nuovi?
Ritornando alle analisi della Fondazione Hebert per i cittadini tedeschi, non mi meraviglierebbe affatto che la scomposizione sociale descritta riguardo alla Germania possa valere anche per gli orientamenti di voto della nostra gente. Potrei sbagliare, ma credo che stiamo attraversando un tempo nel quale gli orientamenti politici prescindono in buona misura dalla collocazione sociale delle persone. Il segno prevalente di questa lunga fase di transizione sta nel senso di impotenza delle persone rispetto ai grandi problemi che gravano sulle società contemporanee. Ci si chiede: si può fare qualcosa contro un virus? Contro la o le guerre? Contro il cambiamento climatico? Contro i flussi biblici e inarrestabili delle migrazioni? Contro l’inflazione? Il senso di non poter far nulla di efficace per sciogliere i nodi che comunque ci angustiano e arrivano a compromettere i nostri equilibri di vita, trasmette quel senso di impotenza mista a rabbia sociale che pervadono i comportamenti della maggior parte dei cittadini, anche oltre la loro specifica collocazione sociale. Se non fosse così, come mai gli operai tedeschi, che hanno i salari più alti di tutta l’Europa, il salario minimo, un mercato del lavoro ben regolato oltre a protezioni sociali elevatissime, una sanità funzionante e pensioni elevate poi votano lo stesso a destra? Temo che la bufera epocale che stiamo attraversando passi in realtà sopra le specifiche condizioni sociali.
Infine una domanda sul Pd. La segretaria Elly Schlein può ritenersi soddisfatta. Era un esame molto importante da superare. Ora che succederà?
Non possiamo che essere pienamente soddisfatti dell’esito elettorale, stando però attenti a non sottovalutare i fattori che lo hanno permesso. Il primo riguarda la forza effettiva delle opposizioni rispetto ai partiti di governo. Parlano i numeri. Nelle elezioni del 2022, gli attuali partiti di governo avevano raccolto il 42% dei consensi. Ora sono al 48%. Sempre nel 2022 Pd e 5 Stelle sommavano il 34% dei voti (19+14), ora si è sempre al 34, solo cambiando gli addendi (24+circa 10). Da questo punto di vista, la distanza dalle forze di governo si è allargata da 8 a 14 punti. Il risultato del 24% è stato raggiunto dal Pd con una composizione delle liste utilizzando sapientemente candidati che erano tutti in grado di essere forti portatori di voti. Bonaccini, Decaro, Nardella, Ricci, Zingaretti, Zan hanno funzionato bene come “pescatori”, e hanno utilizzato reti a strascico. Ma quel bonus è stato giocato e non sarà facile ripeterlo.
A una sinistra che voglia davvero battere le destre, manca ancora la composizione sociale necessaria. Se in Europa l’elettorato ha premiato e si è rifugiato sotto l’ombrello di partiti centristi, con cultura moderata e di governo, in Italia il centro non c’è e quel poco, tranne Forza Italia, si è pure suicidato. Ma la mancanza di un’offerta politica collocata in quello spazio ha portato anche ad avere l’affluenza alle urne più bassa di tutti i grandi Paesi europei, proprio per quegli elettori moderati, ma progressisti, che quell’offerta non l’hanno trovata. Le elezioni dicono che gli unici partiti che hanno ottenuto un consenso significativo, tranne l’Spd, per le ragioni prima dette, sono dalla Spagna, al Portogallo, dall’Olanda, alla Svezia o Danimarca tutti i grandi partiti socialdemocratici che hanno una rappresentanza sociale che copre tutto l’arco delle ispirazioni progressiste. Da noi non ancora, perché il Pd ha ottenuto una forte crescita ma “cannibalizzando” l’altra forza di opposizione. Lo ha fatto notare anche Giorgia Meloni. La strada da fare è tanta anche perché la sinistra, per vincere davvero, deve saper dare risposte politiche all’altezza delle grandi trasformazioni economiche e sociali che stiamo vivendo.
A cosa pensi in particolare? Alle sfide di una globalizzazione che sta cambiando o all’aumento esponenziale delle diseguaglianze, che alimentano disgregazione sociale e quindi paura?
Da questo punto di vista, la campagna elettorale per le europee è stata di basso profilo. Non si sono discussi i temi veri, quelli strategici. L’Europa è riuscita a uscire dalla pandemia e sta affrontando una questione gravissima, come quella della guerra, che sembrava seppellita dalla storia. Le misure prese durante la pandemia hanno avuto la forza di invertire la rotta consueta dell’austerità e hanno parzialmente riavvicinato le istituzioni ai cittadini. Ma l’emergenza non è affatto finita, come vediamo chiaramente con l’escalation delle tensioni belliche. Le culture nazionaliste e populiste sono state per ora ridimensionate, ma tutte le questioni sono aperte e gli esiti imprevedibili. Un’Europa all’altezza delle sfide globali dovrebbe affrontare con coraggio le grandi scelte economiche. L’Europa economica si deve rilanciare, sapendo però che è dipendente dall’importazione di tutte le materie prime. Come si concilieranno le chiusure nazionalistiche e conservatrici con la necessità di innovare anche sul piano della sostenibilità ambientale? Quali scelte dovranno essere fatte per il futuro? A tutte queste domande dovrebbe sapere rispondere una sinistra che voglia riprendersi il suo spazio non solo sociale, ma anche politico e culturale. E, in tema di futuro, in tutto questo un dato interessante è quello che riguarda la scelta di migliaia di giovani che hanno scelto la sinistra.